Giustizia, la doppia partita di Meloni e Schlein: tutti i rischi del referendum

Giustizia, la doppia partita di Meloni e Schlein: tutti i rischi del referendum

Si racconta che il ministro leghista dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ai tempi in cui era sottosegretario a Palazzo Chigi nel Conte 1 usasse tenere nel suo studio una foto di Matteo Renzi a imperitura memoria della caducità delle vicende politiche: il riferimento era naturalmente al referendum del 2016 sulla riforma costituzionale (che aboliva il Senato elettivo e riformava il Titolo V della Costituzione) perso dall’allora premier e segretario del Pd, che aveva voluto personalizzare il voto dichiarando che in caso di sconfitta si sarebbe dimesso. Ecco, questo errore Giorgia Meloni non lo ha fatto e non lo farà: l’eventuale referendum sulla “madre di tutte le riforme”, ossia il premierato, è stato prudentemente rimandato alla prossima legislatura e il voto sulla riforma della giustizia targata Nordio – che in ogni caso, è stato precisato, non riguarderà le sorti del governo – sarà tenuto a distanza di sicurezza dalle comunali del giugno prossimo e quindi il prima possibile, tra marzo e aprile.

La parola d’ordine nel centrodestra è «depoliticizzare» il referendum…

Isolare il voto referendario è un modo per depoliticizzare il più possibile l’appuntamento in modo da intercettare più facilmente il favore dell’opinione pubblica moderata anche fuori dal centrodestra. Senza election day con le comunali, inoltre, si evita l’effetto trascinamento nei grandi centri urbani, dove tradizionalmente il Pd e la sinistra sono più forti. La parola d’ordine è dunque quella di smorzare i toni, di non personalizzare il confronto e di restare nel merito della riforma respingendo l’accusa delle opposizioni di attacco alla Costituzione e agli equilibri tra i poteri dello Stato.

… ma per Meloni sarà difficile non mettere la faccia sulla riforma Nordio

Ma per la premier sarà difficile non mettere la faccia sulla riforma che separa le carriere e divide in due il Csm, come ha dimostrato nei mesi scorsi lo scontro con la magistratura in merito ai ripetuti blocchi dei trasferimenti degli immigrati clandestini in Albania e come dimostra ancora in queste ore la reazione alla bocciatura del progetto sul Ponte sullo Stretto da parte della Corte dei conti: «L’ennesimo atto di invasione della giurisdizione sulle scelte del governo e del Parlamento… La riforma costituzionale della giustizia e la riforma della Corte dei conti rappresentano la risposta più adeguata a una intollerabile invadenza, che non fermerà l’azione del governo, sostenuta dal Parlamento». E sarà anche difficile non interpretare l’eventuale sconfitta referendaria come un segnale politico nei confronti del governo, quantomeno un primo segnale di sfiducia dopo tre anni di gradimento stabile. Da qui l’aurea profetica, o scaramantica, delle parole pronunciate dal presidente del Senato Ignazio La Russa, di certo non catalogabile tra i nemici della premier: «Io personalmente sono stato tra i fautori della separazione delle funzioni, che non separa le carriere ma rende già ora difficile il passaggio da una carriera all’altra. Per cui forse il gioco non valeva la candela, mentre invece l’aspetto dei due Csm è un tentativo di ridurre il peso delle correnti, vediamo se riesce».

Il timore dem di un’altra battaglia persa dopo quella contro il Jobs act

Sul fronte opposto il timore di molti nel Pd è che la segretaria Elly Schlein, che pure nella riunione dei gruppi ha invitato cautamente a concentrarsi sul merito della riforma Nordio e a non politicizzare troppo il prossimo voto referendario, si faccia trascinare dal M5s e dalla Cigl nell’ennesima battaglia persa, nella speranza della “spallata al governo”, dopo il mancato quorum ai referendum sul lavoro del giugno scorso. Questa volta, trattandosi di un referendum confermativo di una riforma costituzionale, il quorum non è previsto: vincerà chi riuscirà a portare più sostenitori alle urne. Ma il clima nel Paese nei confronti della magistratura, come rilevano i sondaggi, è molto cambiato dai tempi di Tangentopoli e da quel “Resistere, resistere, resistere, come su un’irrinunciabile linea del Piave” pronunciato nel 2002 da Francesco Saverio Borelli.

Opposizioni non compatte: Calenda e Renzi si sottraggono al fronte del No

Per di più, come accaduto con i quesiti contro il renziano Jobs act, le opposizioni non sono compatte: se Carlo Calenda con la sua Azione conferma il sì alla riforma che separa le carriere e divide in due il Csm e quindi si schiera per il Sì al referendum confermativo che si terrà il prima possibile, tra marzo e aprile, Matteo Renzi con la sua Italia viva conferma il voto di astensione. Astensione che alle urne si tramuterà in libertà di voto: favorevole alla separazione delle carriere, che era anche nel programma del fu Terzo polo alle ultime politiche, le perplessità dell’ex premier riguardano il meccanismo del sorteggio per l’elezione dei membri del Csm. Ma il non schierarsi con il Sì è in realtà una scelta tutta politica per non rompere con Schlein in vista delle elezioni del 2027, appuntamento che Renzi ha deciso di giocare nel campo del centrosinistra a differenza di Calenda che continua a inseguire il sogno di un Terzo polo autonomo. L’effetto è comunque lo stesso: al fronte del No mancherà del tutto il centro moderato.

Fonte: Il Sole 24 Ore