
Grano, la caduta dei prezzi mette a rischio le semine
Gli alti costi di produzione, la concorrenza dall’estero e le quotazioni troppo basse stanno mettendo a rischio il raccolto del grano del prossimo anno. Nei campi italiani, come ogni autunno, stanno per partire le operazioni di semina che daranno origine al raccolto 2026, ma l’incertezza tra gli agricoltori è molto alta e qualcuno già pensa di abbandonare i terreni, oppure di virare su colture più redditizie. Con buona pace dalla produzione di grano nazionale da destinare alla pasta made in Italy.
L’allarme arriva dalla Coldiretti e parte da un dato: negli ultimi due anni il prezzo del grano duro è diminuito di circa il 30–35%. L’ultima quotazione alla borsa di Foggia parla di 290-295 euro a tonnellata. Un prezzo così basso non lo si vedeva dall’agosto del 2022. Con i ricavi che non riescono a coprire i costi sostenuti dalle imprese agricole, il rischio è che ampie aree del territorio nazionale vengano abbandonate. Tra le aree più svantaggiate, secondo la Coldiretti, ci sarebbero la Puglia – in particolare la provincia di Foggia – la Sicilia e la Basilicata, dove le aziende cerealicole sono spesso localizzate in zone interne prive di alternative produttive e quindi più esposte al rischio di desertificazione.
In Italia la campagna 2025 del grano, dopo il difficile 2024, era anche riuscita a recuperare qualcosa, mettendo a segno un aumento del 7% a quota 3,7 milioni di tonnellate. «Il problema principale resta quello delle importazioni massicce di prodotto straniero», sostiene Gianluca Lelli, amministratore delegato di Cai-Consorzi agrari d’Italia, che ad oggi costituisce il più grande stoccatore di grano del nostro Paese. Nei primi cinque mesi del 2025 l’arrivo di frumento duro dall’estero è aumentato del 18%: quello canadese, in particolare, è più che raddoppiato (+119%) rispetto all’anno precedente. «Ormai non è il primo anno – dice Lelli – che diversi Paesi, dal Canada alla Turchia fino alla Russia, inondano il mercato italiano con le loro produzioni proprio a ridosso della nostra stagione di raccolta, determinando la caduta dei prezzi. A tutto questo ora s è aggiunto anche il dollaro basso, che rende alcune importazioni dall’estero ancora più competitive visto che le transazioni di grano avvengono in dollari».
Sul grano italiano si è dunque abbattuto un effetto speculazione, ma – ricorda Lelli – c’è anche un aspetto di concorrenza sleale: «Manca la reciprocità: da un lato gli agricoltori italiani devono rispettare standard rigorosi, dall’altro i produttori stranieri riescono a collocare sul mercato il loro grano a prezzi più bassi utilizzando pratiche non ammesse da noi, a cominciare dal glifosato in Canada». Contemporaneamente, i costi per gli agricoltori italiani sono aumentati: «Anche se non siamo più ai picchi della prima fase della guerra tra Russia e ucraina – ricorda Lelli – i prezzi dei concimi hanno subito la spinta rialzista del prezzo del petrolio e dell’inflazione. Le attuali quotazioni del grano non sono basse soltanto per i nostri agricoltori: persino la Turchia, che l’anno scorso di questi tempi aveva già inondato il mercato europeo del suo prodotto, ad oggi preferisce non esportare finché non si sarà raggiunto un prezzo di vendita del grano più alto sui mercati internazionali».
E la pasta made in Italy, con cosa si farà se l’anno prossimo mancherà la materia prima nazionale? «Chi tra i produttori di pasta si basa sui contratti di filiera non avrà problemi – dice Lelli – perché questi sono contratti sempre premianti per gli agricoltori e nessuno rinuncerà alla semina. In Italia però ci sono ancora troppi piccoli pastai che vogliono produrre con grano made in Italy, ma che si riforniscono sul mercato all’ultimo momento, sperando di portare a casa prezzi più bassi».
Fonte: Il Sole 24 Ore