
Hikikomori sfida clinica e sociale: ecco le risposte che anche l’Italia deve dare
Inizialmente descritto come fenomeno della società giapponese, l’Hikikomori, termine che deriva dai verbi giapponesi “hiki” (ritirarsi) e “komori” (stare all’interno), sta diventando un’espressione di disagio in tutto l’Occidente. Questo fenomeno si manifesta soprattutto nei giovani, come un ritiro sociale prolungato e grave, spesso correlato all’uso problematico delle tecnologie digitali, specialmente dopo il Covid.
L’identikit
L’Hikikomori si definisce in base a tre criteri principali: un marcato e continuo isolamento sociale all’interno della propria abitazione, una durata di almeno sei mesi e una significativa compromissione funzionale. Sebbene il dibattito sia ancora aperto, l’Hikikomori coesiste in almeno il 50% dei casi con altri disturbi mentali, come quelli dello spettro autistico, i disturbi dell’umore, l’ansia sociale, i disturbi psicotici e quelli di personalità.
I fattori di rischio
Diversi i fattori di rischio: la pressione per la realizzazione sociale, ma anche eventi stressanti o traumatici. Il ritiro può esacerbare problemi psicologici come depressione, ansia e calo dell’autostima e se prolungato, può essere associato a un aumento del rischio di patologie fisiche, tra cui malattie cardiache, ictus e diabete di tipo 2, oltre a deficit cognitivi.
Le tecnologie digitali permettono agli Hikikomori di mantenere una “connessione disincarnata” con il mondo esterno, riducendo la percezione del rischio del contatto umano diretto, ma al contempo rafforzando l’isolamento. L’uso della tecnologia può diventare un rifugio disfunzionale, un “mondo parallelo” a bassa frustrazione. Tuttavia, le tecnologie digitali non sono la causa, ma un fattore di rischio e mantenimento e se ben integrate, possono anche diventare uno strumento terapeutico.
Fonte: Il Sole 24 Ore