I manager italiani deludono la metà dei lavoratori: il voto complessivo è inferiore a 6

I manager italiani deludono la metà dei lavoratori: il voto complessivo è inferiore a 6

I manager italiani deludono i lavoratori: per metà dei loro sottoposti totalizzano un voto finale che è inferiore alla sufficienza. A essere più negativi e severi nei giudizi sono gli uomini, soprattutto over 50, e i lavoratori delle piccole imprese. La società di recruiting Hays ha intervistato un campione di circa 500 lavoratori e il risultato è che sembrano piuttosto insoddisfatti della classe dirigente con cui devono confrontarsi nella quotidianità. Per i lavoratori il capo ideale dovrebbe infatti essere empatico, come dice il 42%, autorevole (39%) e onesto (36%). In realtà i lavoratori dicono di trovarsi davanti manager poco chiari (38%), diffidenti (29%), che non favoriscono la crescita professionale (26%) e sono egocentrici (19%). La metà dei lavoratori italiani boccia il capo con un voto al di sotto del 6. Due su tre hanno addirittura abbandonato il lavoro almeno una volta per colpa del proprio manager. I risultati di questa indagine, dice Alessio Campi, people&culture director di Hays Italia, «mettono in evidenza quanto il ruolo dei manager sia oggi sempre più centrale non solo per il raggiungimento degli obiettivi aziendali, ma soprattutto per il benessere e lo sviluppo delle persone. Il divario tra il manager ideale e quello reale non può più essere ignorato: i lavoratori chiedono empatia, ascolto, chiarezza e opportunità di crescita».

Poco ascolto

All’interno del campione le principali differenze che emergono sono quelle di genere e di età: il 45% delle lavoratrici ritiene infatti che il proprio manager attuale si avvicini al modello ideale, contro appena il 35% degli uomini. Anche la dimensione aziendale influisce sulla percezione: il 58% dei dipendenti delle grandi imprese dice di aver avuto almeno un manager nella sua carriera che rispecchiasse le caratteristiche del suo manager ideale, mentre nelle piccole imprese la percentuale si ferma al 47%. Tra i fattori di maggiore debolezza c’è l’ascolto, così come la valorizzazione delle competenze: il 60% degli intervistati sostiene che il proprio capo limiti lo sviluppo professionale, non favorendo né l’apprendimento né un ambiente che stimoli il contributo individuale. La percezione di quanto il proprio manager possa ostacolare la crescita professionale varia anche in base all’età. Se sono meno di un terzo (32%) gli under 29 che ritengono che il proprio responsabile limiti molto o abbastanza la propria crescita, tra gli over 50 questa percentuale sale al 72%.

Pensiero critico poco apprezzato

I manager, secondo i lavoratori, tendono a preferire chi segue le regole senza esporsi (38%), chi mostra affinità personale con loro (36%) o chi è sempre disponibile, anche oltre l’orario di lavoro (24%). Solo una minoranza sente di essere apprezzata per capacità di pensiero critico e autonomia. Una dinamica che mina non solo la motivazione dei singoli, ma anche l’innovazione e la crescita complessiva delle aziende. «In un contesto lavorativo in continua trasformazione, le aziende che sapranno investire nel coinvolgimento e nell’engagement dei propri dipendenti, offrendo spazi di crescita e motivazione, riusciranno ad attrarre, trattenere e valorizzare i talenti – interpreta Campi -. L’engagement non riguarda solo la permanenza, ma la creazione di una cultura aziendale in cui le persone credono attivamente, si sentono valorizzate e sono pronte a dare il meglio di sé. È una sfida culturale prima ancora che organizzativa: mettere davvero le persone al centro significa dotare i manager degli strumenti necessari per diventare veri facilitatori di crescita».

Fonte: Il Sole 24 Ore