I Radiohead sono tornati. Per fortuna

I Radiohead sono tornati. Per fortuna

I Radiohead sono tornati, dopo sette anni di assenza dai palchi e quasi un decennio senza nuova musica. Nell’anno della reunion più chiacchierata della storia del rock – quella degli Oasis – anche la band di Thom Yorke torna a esibirsi dal vivo: un tour europeo in sole cinque città, inaugurato a Madrid il 4 novembre e approdato il 14 novembre all’Unipol Arena di Bologna (prima di quattro date italiane, tutte esaurite), per poi proseguire verso Londra, Copenhagen e Berlino. Il parallelismo con i fratelli Gallagher si ferma qui. Non solo perché i Radiohead non si erano mai davvero sciolti, limitandosi a una lunga pausa che ha permesso ai componenti di seguire altre strade e calarsi in altre forme sonore (Atoms for peace, The Smile, solo per citarne due). La differenza sostanziale, nella rentrée del quintetto di Oxford, è stata l’assenza dell’ospite più atteso di qualsiasi esercizio retrospettivo: la nostalgia. Nessun pellegrinaggio auto-celebrativo nel passato, nessuna liturgia commemorativa, nessuna costruzione di santuari dedicati agli anni della Cool Britannia: a Bologna è andato in scena uno show che ha attraversato più di trent’anni di repertorio con consapevolezza e maturità, come se quelle canzoni non avessero mai smesso di crescere e di evolversi. Quindicimila persone hanno accompagnato l’apertura del concerto con Planet Telex (primo pezzo di The Bends, 1995) dissolvendo la distanza temporale e catapultando la band nel presente.

Poi, per poco più di due ore, è stato un grandioso, quasi infernale su e giù tra epoche e dischi diversi, tra ballate rock, distorsioni psichedeliche e rullate potentissime di batteria: 2 + 2 = 5, Sit down. Stand op., Bloom, The gloaming, There There. Il picco intimo e dolcissimo di No surprises (da OK Computer). Everything in its right place, la canzone di apertura di Kid A, il disco che nel 2000 rivelò dei Radiohead a loro agio tra sintetizzatori e drum machine. E poi ancora The national anthem, Daydreaming e le pulsazioni ritmiche di Idioteque. Nel gran finale sono arrivate Fake plastic trees, Let down, Paranoid android, A wolf at the door, Just e Karma police. L’assenza di Creep, da tempo espunta dal repertorio, vale come una dichiarazione: qui non c’è posto per i ritorni forzati ai traumi adolescenziali, nonostante il brano del “mostriciattolo” con bassa autostima abbia sicuramente fatto da colonna sonora alla gioventù di buona parte del pubblico presente.

Un concerto da manuale, che forse avrebbe meritato un contesto più nobile del palasport di Casalecchio di Reno, ma questo è un altro discorso. In quello spazio neutro, quasi anonimo, lo show si è dispiegato comunque nella sua pienezza: palco centrale, democraticamente circondato dal pubblico su ogni lato. Attorno alla band, dodici schermi verticali salgono e scendono come pannelli mobili, proiettando ora visual astratti, ora dettagli ravvicinati di strumenti e volti degli artisti: le immagini si deformano e si ricompongono, come se la musica potesse essere tradotta in impulsi luminosi. Sul palco circolare, Thom Yorke non smette quasi mai di muoversi: danza, si contorce, saltella e si diverte, con una energia e una fisicità che di certo non esprimeva quando aveva vent’anni (ora ne ha 57). Non parla, questo no, se non per ringraziare il pubblico e per chiedere, come a verificare che l’unica cosa importante sia quella, se la musica “si sente bene?”. Molti, dentro e fuori l’arena, forse si aspettavano altre parole: la questione del conflitto tra Israele e Palestina aleggia sulla percezione dei Radiohead ormai da diversi anni. Nel 2017 avevano suonato a Tel Aviv, ed erano stati travolti dalle critiche, comprese quelle del regista Ken Loach e di Roger Waters (ex Pink Floyd), che avevano chiesto loro di non esibirsi. Jonny Greenwood è sposato con un’israeliana e ha collaborato con l’artista israeliano Dudu Tassa (il duo ha dovuto annullare diversi concerti previsti in Inghilterra a giugno). Molte cose sono state dette e il BDS (Boycott, Divestment, Sanctions movement) ha invitato i fan a boicottare questo tour. In una recente intervista al Sunday Times, Yorke ha dichiarato – tra le tante altre cose – che non suonerà più in Israele finché resterà in carica il governo di Benjamin Netanyahu.

Difficile dire se la conclusione del concerto sia stata, in qualche modo, una risposta: la band ha scelto di proiettare sui maxischermi la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Volevano dirci qualcosa? Forse. O, più semplicemente, non era questo il punto della loro reunion.

Fonte: Il Sole 24 Ore