I rischi nel food: le variabili più pericolose sono clima e reputazione
Vincolate da una normativa molto rigida, la cui minima violazione può macchiare l’immagine, e consapevoli dell’effetto amplificatore dei social media a livello globale, le aziende italiane del food&beverage temono per la propria reputazione. Tanto che il 16% delle imprese ha già predisposto un piano contro il rischio di un danno al buon nome dei propri brand mentre tutte si sono dotate di strumenti e risorse per il monitoraggio costante del posizionamento sul mercato. Poi il 53% ritiene che una grande opportunità di crescita e consolidamento derivi dall’investimento sulla sostenibilità.
Il food made in Italy oscilla tra paure e certezze. Da un lato vede i rischi legati alle tensioni geopolitiche, al malfunzionamento della supply chain, al prestigio dei propri marchi. Dall’altro intravede grandi opportunità in un ciclo produttivo attento alla tutela dell’ambiente, alla domanda in crescita di una alimentazione salutare, ai vantaggi che possono derivare dall’utilizzo di big data e intelligenza artificiale. E’ quanto emerge da una ricerca condotta dal gruppo angloamericano WTW (Willis Tower Watson, specializzato nella consulenza per la gestione rischi). Ricerca che ha coinvolto 16 Paesi e che in Italia ha riguardato 16 aziende del settore, con una media di 800 dipendenti.
Tutte medie e grandi imprese con un minimo di 150 lavoratori: il 18% fattura meno di 800 milioni all’anno, il 39 % fino a un miliardo. “Un campione eterogeneo sul quale ci siamo concentrati intervistando i senior decision maker e i risk manager”, dice Paolo Molteni, chief commercial officer di WTW Italia, che ha la propria sede a Milano. “Il problema del mantenimento della buona reputazione – prosegue Molteni – viene percepito come il più difficile da gestire per il 38% delle aziende. Ed è molto sentito anche quello della supply chain: molte imprese stanno cercando di ridurre la catena dell’approvvigionamento e di diversificare la filiera”. La paura di una interruzione dell’attività viene palesata da quasi il 50% degli intervistati, mentre il 40% vede un fattore di rischio per la continuità di esercizio nella tenuta della filiera, esposta anche alle ripercussioni internazionali delle guerre in corso, dal conflitto mediorientale alla guerra tra Russia e Ucraina, con le limitazioni dei raccolti e gli attacchi al trasporto marittimo. “Tanto che molti gruppi si stanno interrogando su come e dove approvvigionarsi”, spiega Molteni. Tra i fattori esterni che preoccupano maggiormente c’è poi il cambiamento climatico (29%) dato che gli eventi metereologici estremi, come inondazioni e siccità, hanno un fortissimo impatto sulla catena agroalimentare.
Ma se le imprese più strutturate dispongono dei mezzi per difendersi per quelle più piccole il rischio assume ancora più rilevanza, anche a fronte del fatto che gli eventi metereologici avversi sono sempre più frequenti. Un’altra preoccupazione molto comune (riguarda il 36% dei manager) è riferita al cambiamento della domanda e con esso alla capacità di una impresa di tenere il passo delle nuove tendenze e delle trasformazioni degli stili di vita dei consumatori, sempre più sensibili ad una alimentazione salutare, alla sostenibilità e alle influenze culturali. Risultati ben diversi da quelli di una analoga ricerca svolta due anni fa sempre da WTW: in quell’occasione le aziende avevano visto grandi opportunità nella diffusione di alimenti geneticamente modificati mentre ora predomina l’attenzione al contenuto nutrizionale di un prodotto.
Oggi per il settore le migliori possibilità di crescita ed espansione, anche a livello internazionale, arrivano da una produzione sostenibile, vincolata anche a una alimentazione sana (53%). L’evoluzione dei gusti e delle preferenze dei consumatori non è però solo fonte di timori sull’abilità delle aziende di saper cogliere le nuove tendenze imposte dal mercato. E’ infatti vista anche (50%) come una sfida e come una nuova leva di business.
Fonte: Il Sole 24 Ore