I sudari: quei bozzoli che fanno finalmente vedere i corpi

I sudari: quei bozzoli che fanno finalmente vedere i corpi

Tre libri in tre anni. L’urgenza di spiegare, di raccontare, di dare voce, di restituire profondità storica e umana alla questione israelo-palestinese mentre il contatore dei morti senza sosta continua a girare. La incontriamo indaffaratissima a Festivaletteratura, a Mantova, Paola Caridi, giornalista e esperta di storia politica contemporanea del mondo arabo, di Medio Oriente, dove si è trasferita nel 2001, prima al Cairo e poi a Gerusalemme. Il telefono non smette di tremare, l’agenda è piena, e la sensazione è comunque di non fare abbastanza. Nel 2023 ha riproposto una versione aggiornata di Hamas, saggio del 2009, divenuto ora Hamas. Dalla resistenza al regime, che parte dalla fondazione agli attentati del 7 ottobre e cerca di spiegare perché ha guadagnato tanto consenso nella società palestinese. Poi nel 2024 è uscito Il gelso di Gerusalemme, “la storia del Mediterraneo e del Medio Oriente raccontata attraverso gli alberi. Un manifesto di botanica politica”. E infine in questi giorni Sudari. Elegia per Gaza (tutti editi da Feltrinelli), sorta di canto funebre, un torrente di parole che parte dai «bozzoli» bianchi e avvolge chi legge e tiene insieme i fatti, i pensieri, le esperienze, le emozioni, dell’autrice e di tante altre persone: vittime, altri scrittori, attivisti, amici, chi si è lasciato attraversare da quanto sta accadendo. Una riflessione storica, politica, estetica e anche un accorato appello.

Quando ho visto il titolo del tuo libro, Sudari, ho subito pensato a una foto di Gaza che mi è rimasta negli occhi, quella di Mohamed Salem che ha vinto il World press photo 2024. Una donna avvolta in un velo il cui volto, che non si vede, appoggia su un altro velo, che nasconde e contiene un corpo più esile, che sappiamo essere quello della nipote. La madre di questa non più bambina di 5 anni è morta insieme a sua madre. Due sono i sudari su quella foto, di cui poi ho scoperto parli nel secondo capitolo. Perché hai deciso di dedicare un libro ai sudari?

Me lo hanno suggerito, me ne hanno fatto comprendere l’importanza, fotografi palestinesi di Gaza come Salem, ma non solo lui. Fotografi che hanno inondato la nostra scena virtuale di Gaza proprio di quelle macchie bianche. E così, nascondendoli, hanno fatto vedere i corpi. Il simbolo dei genocidio sono i sudari perché non occultano i corpi, ma li esaltano. Il sudario parla di noi, di non averli salvati da vivi, di averli scoperti solo una volta uccisi e incartati.

Nella tua conversazione con Adania Shibli, qui a Festivaletteratura, hai sottolineato come nei suoi libri le persone non abbiano nome. «Se le persone che vengono uccise possono non avere nome, allora tutti possono non avere un nome, anche i miei personaggi» ha risposto lei. Tu invece rivendichi la necessità di dare un nome, ci puoi spiegare perché?

La rivendico in questo caso da italiana, europea e occidentale (anche se c’è una mia dimensione che chiamerei mediterranea). Come scrive Omar El Akkad nel suo libro Un giorno tutti diranno di essere stati contro (Gramma, Feltrinelli), sappiamo tutti i nomi degli uccisi nell’attentato delle Torri Gemelle, mentre non conosciamo i nomi, anche per un razzismo automatico, non solo degli uccisi di Gaza ma di coloro che consideriamo non come noi, di chi viene ucciso in Sudan, in Myanmar, nei luoghi che non riteniamo come i nostri. Quindi il nome è importante per questo motivo, per chi guarda da occidente verso Gaza. Nello stesso tempo capisco il punto di vista di Shibli, lo comprendo nel profondo. È esattamente il rispecchiamento della mia posizione. Non dare nome vuol dire rendere universale l’umanità.

Fonte: Il Sole 24 Ore