Il felice debutto di Jonathan Anderson da Dior

Il felice debutto di Jonathan Anderson da Dior

A metà della fashion week parigina, infine, fu D day. D come Dior, naturalmente: il momento più atteso di tutta la stagione. È la tanto agognata agnizione del nuovo? La speranza soddisfatta del fatidico e sempre piú raro fashion moment, motivo d’essere e principio unico della dinamica per tutto il sistema? Lo è, ma fino ad un certo punto. Jonathan Anderson esordisce alla direzione creativa della più augusta maison di Francia, prima figura in settant’anni a lavorare sulle collezioni uomo, donna e couture, gettando le basi di quel che potrebbe essere il suo percorso ma evitando di correre grandi rischi. La prova è perfetta, energetica e senza sbavature, ma no, non è un momento di totale reset, uno spartiacque epocale – forse non è nemmeno la congerie storica adatta ad un simile accadimento. Consapevole di quelli che sono i limiti e le necessità, in primo luogo commerciali, di un marchio cosí in un gruppo cosí, Anderson agisce con sensibilità e astuzia, concentrando l’attenzione e il messaggio, per la prima volta nella sua carriera, sullo stile invece che sul design, sul modo invece che sulle cose, sul racconto invece che sull’architettura. La collezione narra, con grande freschezza, di un gruppo di giovin signori, belli e sani e verosimilmente della rive gauche – il francesismo è d’obbligo -, che si vestono mescolando spontaneamente chinos e marsine, campagna inglese e couture, cravatte, tweed e mantelle e poi tante cose normali, magari fasciando il collo in un evidente e decadente cravat di raso. L’estetica astratta di Anderson e la pompa magna di Dior non sono a tutta prima conciliabili, ma è in questa distanza che sta la forza del matrimonio combinato. Al momento lo sposalizio sa di sorbetto: colorato ma con poco sapore. Però c’è tanto da mettere in negozio, ed è tutto desiderabile. Meglio ancora, poi, si evince un atteggiamento di sano confronto con il passato e l’archivio, ed è lí che potrebbe stare la formula. “Dopo tutto – dice Anderson – Monsieur Dior ha creato il New Look guardando un secolo o due indietro”.

Anche Junya Watanabe guarda indietro per immaginare il presente, e riconfigura broccati, arazzi e tappezzerie in un guardaroba di giacche archetipiche, dalla mascolinità solida ma non stantia, con un friccicore di ribellione nel trattamento liso delle superfici e nella allure beatnik.

La sempre criptica e sempre immaginifica Rei Kawakubo, preoccupata comprensibilmente per le sorti del mondo, immagina una tribù di sciamani che possano ricondurre gli umani verso amore e fratellanza. Speranza invero utopistica, che si traduce in una infilata di abiti e tuniche dalle torsioni materne e curvilinee, e dai colori ora primari ora lisergici. Qui non c’è bisogno di narrazioni o sovrastrutture: la potenza della visione è nella costruzione delle cose, e riverbera con la chiarezza di un tuono.

A confronto, il pathos latino di Willy Chavarria, sospeso tra orgoglio razziale e denuncia sociale, appare goffamente sonoro – una protesta non può certo essere silenziosa – che è poi il male minore. È la resa sartoriale delle forme, e poi il barbaro tentativo di creare abiti da sciantosa, che non convince.

Fonte: Il Sole 24 Ore