
Il film contro Putin che spopola in russia
Il Maestro e Margherita in Italia è arrivato in sordina. Un passaggio al Bari Film Festival, pochi cinema coraggiosi ad attenderlo e poi, man mano, l’abbrivio di sale e di pubblico con il passaparola. Che sia un capolavoro o meno – e sotto certi aspetti lo è (la regia di Michael Lockshin, la fotografia di Maxim Zhukov, i costumi di Galya Solodovnikova e Ulyana Polyanskaya) –, la pellicola è notevole sotto molti punti di vista. Anzitutto, ha la forza di imporsi senza un battage pubblicitario pervasivo su un pubblico diseguale e distante per età e interessi. Un’audience per metà adulta e raffinata, attirata dal titolo – l’adattamento del capolavoro di Bulgakov – e dall’eleganza delle atmosfere hollywoodiane d’antan. Per l’altra metà, giovane e ansiosa di riconoscersi nei generi che ne hanno nutrito l’infanzia: il fantasy, l’harrypotterismo, il magico, il supereroico. Elementi che per lo spettatore âgée sono piuttosto kitsch, ma comunque tollerabili nel filologico contesto satanico.
La libera interpretazione di Bulgakov
La storia è una libera interpretazione dello sceneggiatore Roman Kantor che ha messo mano su una trasposizione leggendariamente considerata “maledetta”. Lockshin ha vinto la scommessa realizzando un blockbuster che prende alla larga il testo “sacro”, senza però sganciarsene del tutto, intrecciando la trama con la vita di Bulgakov che non ha mai potuto vedere pubblicato il suo libro. La storia si svolge in una Mosca anni Trenta, sotto un dittatore, Stalin, che non si vede, né viene mai nominato. L’allestimento di un imponente spettacolo su Pilato viene fermato il giorno prima del debutto, accusato di essere accondiscendente verso la figura di Cristo, incompatibile con l’“ateismo di Stato” sovietico. L’autore della pièce, il Maestro, viene espulso dall’Unione degli scrittori e salvato da sicura morte, durante una parata, da una donna enigmatica, bellissima e triste, Margherita. I due vengono travolti da una passione irrefrenabile che li costringe a nascondersi perché lei è sposata. Ciò che appare subito evidente è la somiglianza architettonica tra la Mosca della scenografia di Denis Lischenko e certi palazzi art decò di New York: due metropoli gemelle che avrebbero tratto dalla megalomania costruttiva un esito vitale completamente opposto.
L’arrivo di Woland che rovescia tutto
In questa città bellissima e in costante rifacimento arriva Woland, enigmatico ed elegante signore tedesco, accompagnato da allegri e folli servitori. Woland è il diavolo, al cui cospetto tutto si rovescia, soprattutto la vita di chi nega la sua esistenza. Nel mondo in cui l’ipocrisia trionfa satana sembra il vendicatore degli umiliati e offesi piuttosto che l’incarnazione del Male: perseguita i dirigenti comunisti che impongono il rigore al popolo e si chiudono negli appartamenti di lusso a bere champagne, tenta e corrompe compagni e compagne con la frivolezza degli abiti di moda. Con lui sulla città e sulla Moscova si diverte a correre una strega che irrompe nelle case di lusso, distruggendole, rosa dal dolore profondo che l’ha colta nella prigione-ospedale psichiatrico dove finiscono gli intellettuali non allineati e dove è precipitato anche il Maestro in uno stato febbrile, tra punture e allucinazioni. Qui e verso la fine c’è la “zona” di maggior sofferenza per il vecchio cinefilo che si imbatte nell’horror contemporaneo spiccio, che però viene temperato dalla bellezza degli interni razionalisti. Ma Woland esiste o è un’illusione? Lo scrittore, ovvero il Maestro, non lo saprà mai e nemmeno lo spettatore. Del libro si riconosce il gatto, cinematograficamente piuttosto goffo, ma fedele all’idea che nasce dal testo letterario, così come l’emicrania di Ponzio Pilato e la decapitazione del boiardo di Stato Berlioz.
Gli ottimi attori
Tutte scene che rendono vividamente le pagine, grazie anche alla grande qualità degli attori. Su tutti, Evgeniy Tsyganov (il Maestro), August Diehl (Woland), Yulia Snigir (Margherita), Ponzio Pilato (Claes Bang). Il regista, americano di nascita, figlio di uno scienziato nato in America da genitori ebrei russi scappati dal pogrom, è andato a vivere in Urss nel 1986, quando il padre ha lasciato il suo posto da ricercatore a Houston chiedendo asilo politico in Unione sovietica. Perfettamente bilingue e interprete di entrambe le mentalità, è stato capace di realizzare un film commerciale, ma antimilitarista nel momento in cui Putin ha sferrato il suo attacco contro Kiev, manifestando anche verbalmente la propria solidarietà all’Ucraina. In ogni fotogramma Il Maestro e Margherita trasmette il rifiuto della guerra, dei totalitarismi e della censura.
La rabbia del Cremlino
Quando ha conquistato il botteghino russo con più di 3,7 milioni di spettatori, code fuori dai cinema e applausi durante la proiezione, Putin si è chiesto perché diavolo (è il caso di dirlo) il Russian Cinema Fund, sostenuto dallo Stato, avesse finanziato una buona parte del budget da 17 milioni di dollari – uno dei più ingenti mai stanziati nel Paese – per un film pesantemente nocivo alla sua linea politica. I media filo-Cremlino sono partiti all’attacco di Lockshin, accusandolo di screditare l’esercito russo, bollandolo come terrorista, colpendolo con migliaia di post generati da troll online. Lockshin si deve essere ben rallegrato di aver compiuto la strada inversa rispetto a suo padre, ripercorrendo il cammino dei nonni con una residenza sicura a Los Angeles. Lo aiuta anche quella frase ripetuta diverse volte nel film, tratta del Faust di Goethe: «Io sono parte di quella forza che vuole eternamente il male e opera eternamente il bene», visto che il suo film anche grazie a Putin continua a richiamare pubblico anche nel fuggi fuggi estivo.
Fonte: Il Sole 24 Ore