“Il grande carro”, un dramma elegante e personale

Uno dei film più sentiti e personali di tutta la carriera di Philippe Garrel: si può descrivere così “Il grande carro”, pellicola in uscita questa settimana, in cui si percepiscono le emozioni che il regista francese classe 1948 ha voluto condividere con noi spettatori con questo toccante progetto.
Al centro c’è una famiglia che si occupa di spettacoli di burattini: l’ultima generazione di questa ricca tradizione è composta da tre personaggi interpretati dai tre figli di Garrel, ovvero Louis, Esther e Léna.

Se anche il capofamiglia appare come un alter ego dello stesso autore, si sente quanto di personale ci sia in questa storia: oltre ai riferimenti familiari, sono presenti di fatto tutte le tematiche preferite dal regista francese. Dall’amore all’amicizia, passando per le scelte spesso autodistruttive di chi ha dentro di sé l’anima dell’artista, “Il grande carro” sembra davvero una sorta di mosaico di tutto il cinema del regista di film bellissimi come “J’entends plus la guitare” (1991) e “Les amants réguliers” (2005).

Bastano le prime sequenze per notare come questo lungometraggio sia nato sotto una stella segnata dalla grande passione che Garrel ha per la storia dell’arte e in particolare per quella del cinema: si possono infatti trovare riferimenti a François Truffaut e, nello specifico, a una bellissima scena ad altezza di bambino del suo esordio capolavoro “I 400 colpi” del 1959.

Uno sguardo malinconico

Tra i principali “figli” di quella Nouvelle Vague di cui proprio Truffaut faceva parte, Garrel ha iniziato a realizzare cortometraggi durante l’adolescenza e da quel momento ha sempre mantenuto uno sguardo incisivo ed elegante allo stesso tempo.In questo caso, però, è soprattutto la malinconia a prendere il sopravvento, con riferimento, in particolare in alcuni passaggi davvero commoventi, a come certe tradizioni stiano ormai morendo.È un film sussurrato questo piccolo lungometraggio che ha qualche lieve calo nella seconda parte, ma che riesce comunque a colpire per l’eleganza della messinscena e la delicatezza generale del tono con cui vuole portare avanti i suoi messaggi.

Molti dei lavori di Garrel sono in bianco e nero, mentre in questo caso il regista ha optato per i colori, forse per trasmettere al meglio tutta la magia di un mestiere d’altri tempi, capace di stupire e di creare meraviglia.

Fonte: Il Sole 24 Ore