Il mondo incantato di Donatella Ziliotto
“La cosa più importante nella vita è conoscere se stessi”, ricordava Snufkin, uno degli indimenticabili personaggi della serie dei Moomin di Tove Jansson. Donatella Ziliotto, che li ha scoperti e portati in Italia insieme ad altri grandi classici della letteratura per ragazzi, certamente sapeva ciò che voleva.
Nata a Trieste nel 1932, aveva respirato sin da bambina un’aria di contaminazioni culturali, grazie alla città e alla famiglia che le aveva trasmesso disciplina e leggerezza insieme: un padre che scriveva per il Corriere dei Piccoli sotto pseudonimo, una madre insegnante, un nonno maestro e una professoressa delle medie, Rita Cajola, che le aveva insegnato a volare alto con la mente — leggendo Leopardi e i russi — anche quando fuori imperversava il conflitto. I viaggi nei paesi nordici da diciottenne e la lettura di Karin Michaëlis hanno fatto il resto, consolidando in lei il desiderio di storie in cui le bambine e i bambini potessero essere liberi, scanzonati, curiosi, non modellati dai voleri degli adulti.
Dopo la laurea su Pinocchio con Francesco Flora, Ziliotto aveva iniziato un’attività instancabile come editor, scrittrice e traduttrice. Aveva passato più di un decennio a Firenze, dirigendo per Vallecchi tre pionieristiche collane per l’infanzia dedicate a nuovi autori italiani e stranieri. Fin dall’inizio l’orecchio editoriale è infallibile: è lei a promuovere la prima traduzione italiana di Pippi Calzelunghe, che segna un vero spartiacque nella letteratura per ragazzi in Italia (la trasposizione televisiva che tutti conosciamo arriverà più tardi, sempre per sua intermediazione). La scelta di Ziliotto di portare in Italia personaggi che sfuggono alle imposizioni patriarcali, vivendo in un clima di libertà e autenticità, è emblematica di un progetto che mette al centro l’esperienza del bambino, non la rassicurante morale adulta.
Negli anni successivi la sua energia non conosce soste. Collabora con Grazia Nidasio, inventa e cura programmi innovativi per la RAI tra il 1970 e il 1987, tra cui Il Paese di Giocagiò, Fotostorie, Le fiabe dell’albero e trasposizioni televisive di classici e nuovi libri. La sua televisione non era mai semplice intrattenimento: piuttosto, un laboratorio sperimentale dove musica, scenografia, recitazione e racconto convergevano per stimolare la curiosità, il pensiero critico e l’amore per la lettura nei piccoli spettatori. Anche negli anni in cui la concorrenza delle emittenti private e dei manga mutava il panorama televisivo, Ziliotto non aveva smesso di coltivare con l’abituale combattività la sua missione culturale, tornando alla letteratura e guidando collane rivoluzionarie come gli Istrici, i Criceti e le Linci per Salani. Gli autori che hanno segnato le infanzie dei nati tra gli anni ottanta e novanta — Roald Dahl, Michael Ende — li ha scoperti e promossi lei.
In parallelo, Ziliotto aveva coltivato una sua originale vena di autrice in proprio (come dimenticare Tea Patata, cronaca dolceamara di una strampalata famiglia anni settanta?). Non c’è da stupirsene: tutto in lei era pronto a farsi racconto. Il diario che la futura autrice e traduttrice scrisse tra gli otto e i diciassette anni (Pensa, giornalino! Diari di una bambina che amava i diari, Bompiani, 2018) testimonia una vivacità intellettuale straordinaria. Tra annotazioni, disegni, letture emerge già il talento di una ragazzina che rifiuta di confinarsi nei ruoli tradizionali, e che vede nella scrittura un potente strumento di libertà. Come annotava a tredici anni: «Io non so cos’è, vedo che tutto mi si sta cambiando dentro». Donatella Ziliotto ha dedicato la vita a dare forma a quel cambiamento, trasformandolo in storie, programmi, traduzioni, collane e, soprattutto, in libertà di pensiero.
Fonte: Il Sole 24 Ore