Il mondo si capisce meglio se lo si guarda dai margini

«Mi interessano i margini, di cui non parla nessuno. È lì che accadono cose sconvolgenti. Il mondo lo si capisce meglio se lo si guarda dai confini, dalle frontiere. Il centro nasconde le contraddizioni» afferma a Festivaletteratura di Mantova lo scrittore, poeta, accademico di origine albanese Gazmend Kapllani, autore, fra l’altro di Breve diario di frontiera e La terra sbagliata (Del Vecchio editore). «Puoi raccontare tutta la storia dell’Europa del XX secolo attraverso le frontiere: la prima e la seconda guerra mondiale, la guerra fredda, quando divennero impermeabili». Lui ha fatto parte «della terza ondata di migrazioni che ha interessato l’Europa, quella che ha seguito la caduta del Muro di Berlino. successiva a quella avvenuta tra il 1850 e il 1930, che interessò anche tanti italiani e quella tra le due guerre mondiali». «La mia generazione di albanesi, ma anche più in generale di europei orientali, è cresciuta con l’ossessione di varcare le frontiere. Se i nostri nonni emigravano per ragioni economiche, la nostra emigrazione era profondamente politica: volevamo ribadire la libertà di movimento, volevamo mostrare che il mondo era tornato normale. Chi viveva a Ovest non capiva questa nostra ossessione e nemmeno la nostra ingenuità: noi credevamo di andare dalle nostre sorelle e dai nostri fratelli all’Ovest!» Nella Terra sbagliata si parla di ritorni: «come per Ulisse che cercava di raggiungere Itaca, il ritorno è un’avventura, è un altro viaggio». Protagonisti due fratelli, uno che torna, l’altro che non è mai partito e che non perdona al fratello di «non esser stato fedele alla sua patria». Nel libro «volevo rendere giustizia a entrambe le voci, non volevo fare la caricatura del nazionalista. Non volevo fare la guerra tra le pagine, ma cominciare un dialogo».

E se una guerra civile facesse migrare gli americani verso Paesi inospitali che, addirittura, non parlano la loro lingua?

Di frontiere e di migrazione si è parlato in continuazione nel secondo giorno di Festivaletteratura. Con la scrittrice e traduttrice di origine serba Elvira Mujčić, che nel suo ultimo libro La buona condotta (Crocetti), un romanzo ricco di ironia ambientato all’indomani dell’indipendenza del Kosovo, parte dalla storia vera di un piccolo paese sul confine dove si tengono le elezioni per il sindaco. Gli albanesi sono 1362, i serbi 1177. A essere eletto è un serbo che vuole andare d’accordo con gli albanesi, ma a Belgrado non va per niente bene, e mandano un nuovo sindaco che continui a soffiare sul fuoco della rivalità etnica. O con l’autore statunitense Ken Kalfus, che nel suo ultimo romanzo Le due del mattino a Little America (Fandango) si diverte (molto) a immaginare un futuro in cui una guerra civile ha costretto i giovani americani a fuggire dai propri confini e spingersi verso Paesi inospitali, ovvero «verso un mondo che aveva imparato a vivere senza gli Stati Uniti, dove questi non avevano più la stessa importanza. Dove non si parlava inglese, dove le persone non riconoscevano la musica americana, ma a loro modo erano felici, anche se con i loro problemi», afferma, sornione.

Il viaggio per l’Europa? Un rito di passaggio

Del viaggio che porta i migranti in Europa, divenuto quasi una specie di rito di passaggio, trattavano molti dei racconti che l’africanista emerito Sandro Triulzi ha raccolto nelle prime antologie, edite da Terre Di Mezzo, del progetto DIMMi (Diari multimediali migranti), un concorso ìdeato e promosso dall’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano che, fra le altre cose, è diventato un prezioso aiuto nel contrastare gli stereotipi sulla migrazione attraverso la testimonianza di chi l’ha vissuta in prima persona. Narrazioni delle violenze subite nei campi di detenzione libici, o dell’attesa della sera con i bambini che piangono senza sapere se a fine giornata sarai ancora vivo. Le ultime due antologie – ad esempio la quinta, da poco pubblicata: Come alberi in cammino – invece si concentrano di più su cosa significhi essere straniero in Italia se non hai caratteristiche quali la bianchezza, la conoscenza della lingua: «marchi di diversità che fanno sì che non apparterrai mai a un Paese che ha ancora un “occhio coloniale”, che vuol dire anche patriarcale, un Paese che si è nascosto esperienze coloniali dove ha commesso crimini contro l’umanità, come ad esempio la conquista militare fascista dell’Etiopia» afferma Triulzi. Un Paese dove «c’è un racconto egemonico della migrazione, che parla solo di alcuni aspetti come le detenzioni in Libia o il viaggio attraverso il mare, ma che tralascia tutte le altre complessità del fenomeno. Dove ci troviamo a essere oggetto perenne di conversazione senza poter definire i termini con cui si parla di noi stessi. È una grande violenza!» afferma Paule Yao, una delle autrici, camerunese di nascita, francese da più di 25 anni.

Fonte: Il Sole 24 Ore