il ruolo delle donne nella leadership

il ruolo delle donne nella leadership

L’uscita, un anno fa, del nostro libro “Questioni di un certo genere, alleanze: il nuovo DNA della cultura aziendale” (Ayros Editore), ci ha dato l’occasione di incontrare moltissime donne e uomini sia all’interno che all’esterno del mondo organizzativo. Al di là dei dibattiti che nei nostri workshop tematici non mancano mai, e delle nuove consapevolezze che ogni incontro produce, sono le storie delle persone che incontriamo ad essere il regalo più prezioso che, almeno io, mi porto sempre a casa e, alcune volte, nel cuore. In queste occasioni, ancor più illuminante è la scoperta di connessioni tra vite e vicissitudini di persone lontane geograficamente, culturalmente e lavorativamente, che, invece, narrano una storia dalle trame comuni e che delinea un tessuto collettivo spesso sottotraccia e non riconosciuto. Come, ad esempio, le narrazioni di chi, arrivato oggi a delle posizioni manageriali e di leadership, pone come primo tassello fondamentale della propria identità lo studio e, spesso, il sacrificio di allontanarsi dalle proprie radici per studiare, un costo sia in termini economici che affettivi.

Nelle nostre sessioni di training manageriale, sono soprattutto le donne a raccontare di questi salti di curva, e se l’ambito lavorativo è nell’area STEM, loro ci raccontano di quanto si siano sentite sulla pelle di aver segnato il passo, generato una svolta che ha avuto un impatto nella generazione successiva. E di studio e genere vorrei parlare in questo spazio che, con una certa regolarità, ho il piacere di condividere con i lettori, anticipando prima alcuni dati ISTAT 2024. Il gap occupazionale di genere tra i 15 e i 64 anni si è ridotto, dal 2013, da circa 22,7 punti tra persone con bassa istruzione fino a 4,1 punti tra le laureate; il 38,5 % delle donne fino a 34 anni risulta laureata, rispetto al 25 % dei coetanei maschi; in generale, il tasso di occupazione delle donne è inferiore di circa 20 punti rispetto a quello degli uomini. Le donne italiane oggi sono, in media, più istruite degli uomini, sia nelle fasce adulte sia nei giovani adulti (25–34 anni). Tuttavia, questo vantaggio educativo non si traduce completamente in vantaggi occupazionali, soprattutto nelle fasce con titoli di studio più bassi, in quanto il gap occupazionale si attenua per chi raggiunge livelli più elevati di istruzione.

Questi dati quantitativi danno valore alle storie “qualitative” di cui vi parlavo prima. Posso testimoniare, infatti, quanto l’istruzione abbia rappresentato una chiave (se non la chiave) fondamentale per il riscatto sociale di una intera generazione, ma soprattutto per le donne negli ultimi 20 anni. Perché parlo di riscatto? Perché molto spesso, essere una leader (di persone, di progetti), oggi, è il risultato di disciplina, fatica, investimento non solo personale, ma anche familiare. Abbiamo creduto (e mi ci metto io in prima persona) nel valore dell’istruzione quale fattore abilitante per raggiungere la soddisfazione, l’emancipazione e la possibilità di contare, di far valere la propria voce. Questo principio è generazionale, come detto in precedenza, e investe sia uomini che donne, ma l’aspetto al femminile che voglio mettere a fuoco trova corrispondenza con i dati dell’occupazione che certamente avrete notato. Ci fanno capire che gli ostacoli verso una vera uguaglianza meritocratica sono ancora ben presenti in merito alle differenze di genere e ci invita a porci questa riflessione: noi, professionisti nelle risorse umane – intesi come people leader e responsabili di processi HR – e role model “generazionali”, come possiamo aiutare il sistema paese a mantenere questa rotta e, se possibile accelerarla nella direzione dell’eliminazione del gender gap?

Istruzione e occupazione, un binomio inscindibile

Mi permetto di mettere al centro due questioni, una quasi banale, l’altra forse meno. La prima riguarda il dato che a tassi di istruzione bassa, corrisponda una parallela statistica occupazionale. Se le ragazze e le donne non studiano hanno meno possibilità di essere indipendenti economicamente attraverso il proprio lavoro. I lavori che non richiedono un livello medio alto di istruzione sono fortemente caratterizzati da requisiti considerati “maschili”. Nell’attesa, ad esempio, che le ragazze possano permettersi di fare le panettiere senza sentirsi dire frasi del tipo: «è meglio che tu cambi aspirazioni, perché i panettieri lavorano di notte ed è pericoloso per una ragazza girare e stare da sola o quasi in un negozio, in quegli orari”. Quindi, promuovere lo studio come leva di equità è un’attività da perseguire. Lo sanno bene, infatti, oltre alle istituzioni, gli enti del terzo settore, le fondazioni e le aziende che si impegnano sui territori e nel sociale e che mettono a disposizione non solo il loro know how, ma anche tempo e risorse per promuovere il valore dell’apprendimento e dell’istruzione ad ogni livello ed età.

Fonte: Il Sole 24 Ore