Il senso di pedalare verso l’eternità
Pedalo, ergo sum. Divorare chilometri, polvere, sudore, sguardi, sconfitte e vittorie ed essere ciclisti ad vitam. Ecco Olivier Haralambon, professionista delle due ruote per più di dieci anni, una laurea in filosofia all’Université Paris II e autore de Il ciclista e la sua ombra, capolavoro che non vi farà mai più vedere le gare allo stesso modo. Ha scritto un inno al ciclismo, un trattato di filosofia sull’essere atleti, un’autobiografia che è anche autoassoluzione, autoaccusa. Insomma, un’autoanalisi scarnificante che surfa tra le parole per arrivare al cuore dello stare in bicicletta. Al cuore del camminare sul filo fra la gloria, il buio e le ombre. Qualcosa di umanissimo e quotidiano. Siamo tutti ciclisti: «Ho amato ferocemente la bici e le corse perché mi hanno regalato questa particolare forma di fiducia nell’insondabile immensità dell’esistenza, nella verticalità del tempo. Senza la bici, senza le gare, non avrei mai provato la benché minima sensazione di eternità – e non solo come mito, ma come vera esperienza».
Si parte dalla prima bicicletta, era una Mercier, e il ricordo è luce incandescente e batticuore: «Quella bicicletta ancora oggi mi secca la gola, si prese una mattina la mia innocenza». E come accade con ciò che abbiamo di più caro il giovane Olivier dorme con la bici in camera, profili ben noti, come quelli della donna amata di cui si conoscono i nei e le ombre. Il corteggiamento notturno diviene amore, promessa di velocità, «trasformare la macchina di fronte nella sua stessa carne». La prima uscita è con lo zio, è una nuova nascita, come figlio del pedale. Haralambon scopre le profondità del suo corpo, fatto di peso, resistenza e sforzo: «la mia anima si era spaccata come un frutto la cui polpa troppo matura era ormai una promessa di infinito».
Non è solo il paesaggio la quinta dei ciclisti, lo è molto di più la solitudine: ognuno, nel turbinio alla Boccioni di ruote, è solo. Ogni peloton, il plotone, è lo spettacolo di 200 solitudini spinte al limite. Sono quasi più da ascoltare che da guardare. L’atleta è in sintonia con la sua pelle e la sua bici e il corpo «deve essere mobile come l’acqua che si diffonde qualunque cosa accada». Ma pedalare – ad esempio, sul pavé della Parigi-Roubaix – implica anche la delicatezza di una ballerina, che unisce cultura e una sensibilità di grande finezza.
Dopo le prime gare, Haralambon diventa ciclista professionista e condivide con i colleghi 200 giorni all’anno e la dedizione totale: «le gare non si accontentano di un solo momento della giornata, si prendono tutto». E intorno ci sono tifosi, accompagnatori, fisioterapisti, giornalisti ma nulla è distrazione. È solo questione di poggiare i gomiti sul manubrio e andare. Con ritmo: «Il ciclista è una questione di ritmo, anzi, di ritmi. Il respiro, il sangue, la carne, tutto si deve accordare ai suoi obiettivi e al suo desiderio di velocità». In questo estremo concentrarsi su sé stessi il tempo e l’asfalto, i rivali e le paure restano alle spalle. Importante è saper cavalcare accanto al dolore ma senza mai farsi sommergere. Quei visi affilati, quelle smorfie di fatica, quel fango sulla pelle, quel pallore. Potrebbe essere l’orlo della disfatta e, invece, per ascendere al cielo della gloria «quello che inseguono con tanto affanno è la loro stessa morte». E lo scrittore apre qui il doloroso capitolo del doping, l’ombra terribile che ha screditato il movimento: «I ciclisti non si dopano per calcolo o per fare carriera: queste ragioni vengono solo dopo. Si dopano in modo del tutto gratuito, lo fanno perché è bello. Perché volare a quella velocità è un’esperienza così meravigliosa che rende sordi a ogni cautela; un’esperienza così bella che si darebbe la vita per viverla un’altra volta in più. È per questo che li perdono, è questo che li rende così puri ai miei occhi. Cercano solo un altro assaggio di delizie così uniche». E confessa: «io che non ho guadagnato quasi nulla, ho conosciuto il terribile piacere e la strana eloquenza muscolare delle anfetamine. Lo facevo perché sognavo di rivivere i miei giorni migliori». Come, in fondo, è successo a Lance Armstrong: «Il ciclista furioso è un uomo già morto in potenza, che chiede solo di dimenticare sé stesso a beneficio della sua impresa, di dissolvere i propri limiti individuali nel processo e nella realizzazione della sua metamorfosi». L’atleta americano, dopo aver sconfitto il cancro, cambia il suo corpo, ha una prestanza fisica abbagliante e vince sette Tour de France consecutivi, dal 1999 al 2005. È un simbolo per tutti i malati ma l’Agenzia Usa antidoping nel 2012 cancella i risultati sportivi successivi al 1998.
Che cosa resta in Haralambon del ciclista che è stato? Dolori dappertutto, l’incostanza degli allenamenti ma pure la sorpresa di rimettersi in bici, dopo aver visto una gara, e rivivere certi brividi. Quasi un incantesimo anche se «il declino fisico porta alla ricerca di altri traguardi, altrimenti la vita sarebbe insopportabile». Ma, nonostante questi scricchiolii del fisico, sopravvive il fascino del pedalare e del farsi accompagnare dalla propria ombra, quasi in una doppia vita, altrimenti impossibile. Dopo migliaia di chilometri e fatiche tantaliche, resta il miraggio delle vette: «Scalare una montagna a tutto gas fa affidamento sul corpo, certo, ma e fondamentalmente un esercizio spirituale. Un’acrobazia spirituale». Capace, a ogni età, di attutire il dolore e offrire l’appiglio per restare aggrappati all’eternità di un istante.
Fonte: Il Sole 24 Ore