Intelligenza artificiale, perché i linguisti servono alle aziende

Si dice sempre che i dati sono il nuovo petrolio. Ma si ricorda poco che si tratta essenzialmente di dati linguistici. Del ruolo dell’analisi del linguaggio naturale con l’AI nel migliorare le decisioni in azienda si è discusso l’8 maggio al secondo appuntamento del ciclo “Humane intelligence. Trasformare l’Intelligenza Artificiale in una tecnologia positiva”, promosso all’Università Cattolica di Milano da Giuseppe Riva, direttore dello Humane Technology Lab, che esplora il rapporto tra esperienza umana e tecnologia. Riva ha invitato innanzitutto a cercare una terza via tra “apocalittici e integrati”. Un’operazione impossibile senza agganciare alla tecnica il sapere umanistico: nella capacità di contaminazione virtuosa tra i due mondi oggi sta la vera scommessa.

La via per non subire l’AI? La saggezza

«Nessun capo d’azienda potrà mai trattare e imparare dalla massa di dati esistenti come l’AI. Per Chat Gpt parliamo di 200 miliardi di parole», ha chiarito Marco Passarotti, ordinario di linguistica, direttore del Centro interdisciplinare di ricerche per la computerizzazione del linguaggio (Circse) e coordinatore del corso di laurea magistrale in linguistic computing. «Nessun essere umano può competere con la macchina nei dati e nella conoscenza, intesa come insieme di correlazioni significative tra informazioni. Ma c’è una caratteristica che resta soltanto nostra: la saggezza, l’evaluated understanding, ossia la capacità di decidere di fare la cosa giusta nel momento giusto». Anche la creatività, per Passarotti, resta appannaggio umano. Perché sebbene l’AI sia in parte creativa, nel senso che sa trovare correlazioni tra i dati, “non sa crearne di nuove”. In questi spazi, tra saggezza e creatività, dovranno dunque muoversi i manager, avendo consapevolezza che «per la prima volta nella storia assistiamo alla dissociazione tra linguaggio, che le AI hanno, e pensiero, che non hanno. La sfida è smettere di umanizzare la AI e diventare più umani, ovvero più “saggi”, per sfruttarla e non subirla».

Dalle previsioni alla generazione di contenuti: il salto delle macchine

Dello stesso avviso Massimo Chiriatti, tecnologo, esperto di economia digitale e Chief technology and innovation officer per l’Infrastructure Solutions Group di Lenovo in Italia. «Finora i dati erano serviti alle aziende e alle organizzazioni per elaborare previsioni, oggi la grande rivoluzione è che generano autonomamente contenuti», ha spiegato. Un esempio per tutti: le traduzioni. «Prima per tradurre si scrivevano programmi di regole, nei quali venivano introdotte le eccezioni. Poi alle macchine è stato detto di dimenticare le regole e procedere analizzando i testi, ed è così che le traduzioni sono nettamente migliorate».

Addio attività ripetitive, largo a nuovi mestieri

A rischio sparizione e delega all’AI, per Chiriatti, sono le attività ripetitive svolte da donne e uomini, come la contabilità delle fatture o il controllo degli incassi. Ma il processo è simile a quello innescato dall’apparizione della calcolatrice sulla scena: perché continuare con i calcoli manuali se la macchina può aiutarci? Un processo di sostituzione naturale, che non deve allarmare, perché altre competenze serviranno, «mestieri nuovi, molti dei quali al momento imprevedibili». Al bando il catastrofismo, l’urgenza è invece concentrarsi su formazione e ricerca.

La domanda di competenze interdisciplinari

«La richiesta di competenze interdisciplinari è in netto aumento”, ha sottolineato Passarotti. «C’è un grande bisogno di computational thinking, pensiero computazionale. Occorre formalizzare il linguaggio naturale perché una macchina lo possa trattare». A questo servono i corsi di laurea come quello inaugurato alla Cattolica: linguisti, dunque umanisti, pronti a lavorare accanto agli ingegneri informatici. «Universi diversi che mai come ora devono imparare a dialogare».

Fonte: Il Sole 24 Ore