Jumpa Lahiri: «Cresciuta ibrida, la mia vita è uno sconfinare, la mia casa è la traduzione»

Jumpa Lahiri: «Cresciuta ibrida, la mia vita è uno sconfinare, la mia casa è la traduzione»

Lui ha vissuto esilio doloroso, «crudele», ha sofferto, si sente morto quando si trova in esilio, non vive più: senza il latino si sente nell’aldilà. Eppure continua a scrivere in latino di questa sofferenza. Gli scrittori hanno sempre fatto così, si aggrappano alla lingua, alla fine. Io non posso compiere questo ritorno. Mi manca quel punto di origine, la mia attività è sempre un attraversare, uno sconfinare. Anche oggi che sto scrivendo un po’ in inglese, ma non è per me un ritorno. Del resto già con Omero lo avevamo capito: il ritorno non c’è proprio. Si torna a Itaca e nessuno ti riconosce più: sei di nuovo straniero a casa tua. Il ritorno non è possibile.

Lo so che per rispondere a questa domanda ha scritto un intero libro. Ma glielo devo proprio chiedere: perché l’italiano?

Cercavo altro. Cercavo un’altra strada, un altro approccio per la mia scrittura. Nella mia vita c’era questo desiderio di raggiungere una nuova sponda, e questa sponda era una lingua, una lingua che mi è stato necessario raggiungere. È stato proprio un’esigenza, come l’esigenza di andare in un luogo. Il luogo per me era la lingua, prima del luogo fisico, cioè l’Italia. Ho cercato questo luogo in questa lingua, e poi sono arrivata nel luogo con la lingua più o meno sotto controllo. Però nel frattempo cercavo anche un’altra chiave, un altro punto di partenza per la mia scrittura: questi fattori in un momento particolare della mia vita si sono combinati in un senso proficuo e ho inizizato a sperimentare l’italiano come lingua creativa, e ho scoperto un nuovo tutto, soprattutto una nuova libertà per esprimere cose che non avrei osato espirmere in inglese, non avrei osato neanche pensare. Questo è stato molto forte, poi ha contato per me anche quel che dice Pavese nella sua traduzione di Moby Dick di Melville, Pavese, traducendolo, diventa Melville e scrive qualcosa come «io vado verso il mare proibito, quel luogo dove non dovrei andare, l’altra sponda». Secondo me Pavese tutto quello che ha fatto è stato un cercare quel mare proibito. Lo ha raggiunto. L’italiano per me è stato un modo per raggiungere il mare proibito. Tutti in Italia mi chiedono: perché abbandoni la tua lingua? Perché scrivi nella nostra lingua? Questi tua, nostra, mi hanno fatto molto riflettere su cose che vanno oltre la lingua. Non ho abbandonato la mia lingua, non ho una mia lingua, cosa vuol dire una vostra lingua? Cosa definisce una vera appartenenza linguistica? Questo ha suscitato altri perché dentro di me, perché c’è una lingua qualsiasi che può avere un’etichetta del genere: nostra, vostra, mia… Capisco wuando uno dice: questa è casa mia, capisco meno quando uno dice: questa è la mia lingua. Però è una formula ricorrente in italiano, la usano in continuazione quando mi intervistano, quando mi introducono, quando recensiscono i miei libri. . È comunque già mettere un confine tra di noi se dico così. Dire invece Jhuma Lahiri scrive in italiano è un’osservazione più neutra.

Pochi autori si traducono. Lei lo ha fatto più volte, ma perché autotradursi è così problematico?

È proprio una crisi esistenziale l’autotraduzione! La traduzione è un’operazione piuttosto violenta, e se non lo è vuol dire che non stai veramente traducendo, se vai a cercare con le pinze corrispondenze, se cerchi di “copiare, non è la traduzione, non è autentico, non è un vero testo. Per tradurre devi smantellare tutto, devi distruggere tutto, devi distruggere il testo e poi ricostruire, parola per parola. Questa è la traduzione, ed è difficile, perché spesso – anche nel mio caso con Ovidio – se tu hai un rapporto di una vita con un testo, un testo che ti sembra proprio sacro, così immenso, stupefacente, importante, l’idea di distruggerlo non ti viene. La traduzione sembra già un tabu per chi lavora su testi altrui, quando ci si autotraduce è tutto all’ennesima potenza, perché è il tuo testo. Sei tu. Quando si scrive tu sei il tuo testo, il confine tra te e il tuo libro è finto. Quando vedo un mio libro vedo me stessa in parole e pagine invece di sangue e ossa. Perciò tradursi è destabilizzate, enormente, è un terremoto. Ed è anche molto faticoso, perché comunque devi rientrare in un’idea, in un testo, in una relatà sulla pagina che una volta che hai chiuso non è detto che tu abbia più voglia di elaborare, di ripercorrere parola per parola. E strada facendo saltano fuori tutti i problemi, tutte le imperfezioni, ti chiedi: perché uso così spesso questa parola? Ti dici: questa ripetizione non ci voleva… avrei invece potuto scrivere così.. Tutto questo è un tormento E c’è il rischio di modificare radicalmente il testo, ma questo non è necessariamente un rischo, come abbiamo imparato da Beckett potrebbe essere invece un’occasione meravigliosa. Ma bisogna accettare che il testo cosiddetto di orgine non abbia un ruolo primario, che sia stato semplicemente un primo tentativo, bisogna accettare un’altra modalità della letteratura, che nessun testo è definitivo, e c’è sempre un altro modo per proprorlo al lettore. La traduzione si sé stessi è un’operazione che nessuno vuole affrontare fino in fondo, perché è violenta sporca, è una fatica. Ma è anche la gioia, la bellezza, di ricostruire dalle macerie di un terremoto.

Fonte: Il Sole 24 Ore