La malinconia estiva di Saint-Laurent, l’India rivisitata da Louis Vuitton

La malinconia estiva di Saint-Laurent, l’India rivisitata da Louis Vuitton

Di fiori e farfalle si dice che raggiungano il picco della bellezza giusto un attimo prima di appassire, o morire. La struggente consapevolezza della fragilità rende la percezione del piacere estetico che essi regalano particolarmente intensa. In apertura della fashion week parigina, muovendosi là dove desiderio ed eleganza si impastano in un modo di vestire e in una grammatica di colori e materie, Anthony Vaccarello evoca una sensazione simile da Saint-Laurent.

Lirica e accaldata, venata di una sensualità potente ma lieve, la prova rappresenta un cambio di passo, sotto ogni aspetto. L’ambiente dell’uomo Saint-Laurent non è più la notte, ma un pomeriggio sospeso tra Parigi e Fire Island; i colori scuri cedono il posto ad una palette vivace e desaturata che omaggia i disegni di Larry Stanton, artista che della scena di Fire Island fu figura prominente sul crinale tra anni Settanta e Ottanta; la sessualità dichiarata e fosca stempera in carnalità soffusa. Vaccarello cattura con sensibilità la leggerezza di quella coterie di uomini così liberi da schemi. Lo fa senza replicarne i look scosciati – solo quattro pantaloncini in una collezione fluttuante e molto accollata, nella quale tutto vibra ma le spalle sono larghe e ferme – bloccando in un segno di stile la fragilità di un momento di edonismo compiaciuto. Perché quegli uomini bellissimi, desideranti e leggeri, pagarono tutti lo scotto della loro spensieratezza, parte di una generazione che, con biblica precisione, fu quasi per intero falcidiata dall’AIDS. Vaccarello naturalmente non parla di tutto questo, ma il suo citare quel paradiso perduto carica il suo lavoro su fluidità e levità, la sua idea di formalità morbida sotto il sole cocente, di una toccante malinconia.

Pharrell Williams, da Louis Vuitton, smorza i toni e la fanfara, così come il bling bling e l’eclettismo marcato delle prove precedenti, ma non l’idea di show in scala gigante -¬ la maison è pur sempre la più grande al mondo nel segmento dell’alta gamma, in termini di fatturato -, e “occupa” la piazza antistante il Centre Pompidou con una parata sartoriale dalle nuance grigie, lividi e terrose. Le note di collezione parlano di omaggio all’India, oltre a riflessioni varie su dandysmo, glamping e morbidezza, ma a parte i pantaloni che si muovono come sari e le policromie decorative sugli accessori, è un’India filtrata e non letterale, che se da una parte sorprende per la sobrietà dell’espressione, dall’altra lascia perplessi per alcuni tratti ripetitivi. Si ha l’impressione che gli abiti, con le loro linee squadrate e non sempre donanti, siano pensati già guardando al visual merchandising, centrato su accessori non esattamente sobri e pensati per un pubblico di nuovi ricchi esibizionisti.

Ryota Iway, da Auralee, continua in fine a lavorare sull’idea di una quotidianità mai scontata ma sottilmente normale. Questa stagione i suoi personaggi svagati e introversi sembrano combattere le incertezze del tempo, le proverbiali bizzarrie del meteo che in un giorno solo puó mettere insieme tutte le stagioni, a colpi di stratificazioni casuali e poetiche, con un lavoro sul colore saturo che è nuovo e aggiunge profondità.

Fonte: Il Sole 24 Ore