La partita di Trump ora ha nel mirino le Digital service tax

La partita di Trump ora ha nel mirino le Digital service tax

L’accordo al G7 di Kananaskis del 25 giugno scorso che esenta le multinazionali Usa dalla global minimum tax – 15% di aliquota mondiale, tassazione minima che invece continuerà a colpire le aziende degli altri G6 e di tutta l’area Ue – è solo il primo passo della politica fiscale di America First.

Sfilandosi dal Global tax deal dell’Ocse all’indomani della sua entrata in carica, il 20 gennaio scorso, Donald Trump era stato chiarissimo ed esplicito: oltre alle politiche dell’Ocse, sospese appunto dall’ultimo G7 canadese, la reazione di Washington avrebbe raggiunto «tutte le norme fiscali extraterritoriali o che colpiscono in modo sproporzionato le società americane». Una sottile perifrasi per indicare le Digital tax che hanno eroso in (minima) parte – e finora in pochi Paesi, Italia compresa – gli enormi profitti delle big-tech statunitensi.

Global minimum tax (sospesa) e digital tax (nel mirino) sono infatti due facce della stessa medaglia, ma molto diverse tra loro. Se la prima, la Gmt, ha a che fare con la competizione di mercato – pur nella bizzarra prospettiva trumpiana – la seconda, odiata pure nella “liberalissima” Silicon Valley e osteggiata anche dai Democratici, riguarda la supremazia geopolitica e strategica degli Usa.

La Global minimum tax

L’idea di tassare le multinazionali ovunque abbiano sedi e attività nasce dopo la grande crisi finanziaria del 2008/09, quando l’esplosione del debito sovrano – anche e soprattutto a stelle e strisce – fece innescare agli Usa la politica del “richiamo” della tassazione. In primo luogo emanando nel 2010 il Fatca (Foreign account tax compliance act) – che obbliga in sostanza banche e intermediari finanziari di tutto il mondo a trasmettere all’Internal revenue service conti e attività dei cittadini statunitensi – subito dopo guidando l’Ocse a varare il programma Beps (Base erosion and profit shifting).

Fonte: Il Sole 24 Ore