La ricerca italiana che misura la coscienza invisibile
«Il Pci è già in uso in diversi centri italiani, tra cui la Fondazione Don Gnocchi di Milano, con cui collaboriamo da anni, e in laboratori statunitensi come l’Università del Wisconsin e il Massachusetts General Hospital di Boston. Lo scopo è validare lo strumento in diverse condizioni di perdita o alterazione della coscienza, per capire quanto la misura possa aiutare nella diagnosi e nel monitoraggio dei pazienti non responsivi. In alcuni casi abbiamo osservato una dissociazione tra comportamento e Pci: pazienti senza risposta motoria ma con indici compatibili con uno stato di coscienza. È un’informazione preziosa per la gestione clinica.»
Come viene usato concretamente in ospedale e quali sono le prospettive?
Il test dura pochi minuti, è indolore e non invasivo. Serve come supporto alla diagnosi, per distinguere gli stati di minima coscienza da quelli vegetativi e in futuro potrà essere utilizzato per monitorare nel tempo i cambiamenti nello stato di coscienza dei pazienti e per affinare le decisioni cliniche. Stiamo lavorando per rendere la tecnologia più compatta e automatizzata, in modo che possa essere usata anche nei reparti di rianimazione. Anche nei centri di ricerca degli Stati Uniti stanno testando il Pci su campioni diversi per arrivare a un riconoscimento clinico ufficiale e rendere questa misura uno strumento affidabile e accessibile a tutti. In sintesi, l’obiettivo è fornire ai medici un’informazione fisica, misurabile e ripetibile. Il Pci non sostituisce il giudizio clinico, ma lo integra, permettendo di identificare i pazienti che mantengono una coscienza residua e di orientare le scelte terapeutiche con maggiore precisione.
Nel suo intervento all’Accademia delle Scienze e delle Lettere lei parlerà anche dei sistemi artificiali, come ChatGpt. Che relazione c’è con la coscienza umana?
L’analogia è utile proprio per capire il limite del nostro modo di inferire. Nel paziente silenzioso rischiamo di negare la coscienza dove c’è; nel sistema artificiale rischiamo di attribuirla dove non c’è. In entrambi i casi confondiamo il comportamento con l’esperienza. Il Pci e altre misure simili servono a fondare questa distinzione su basi fisiche e verificabili, non su impressioni. Solo così possiamo affrontare in modo maturo il tema della coscienza, umana o artificiale che sia.
Fonte: Il Sole 24 Ore