
La vita di Carlos Alcaraz nel documentario Netflix ‘My way
La famiglia, gli amici d’infanzia, l’espressione sorridente e quell’aria un po’ svagata che ci portano direttamente in Spagna, prima ancora della musicalità cadenzata della lingua: nella miniserie Tv Carlos Alcaraz. My way, tre puntate prodotte da Morena Films per Netflix, si entra nel mondo del campione di Murcia e si capisce fino in fondo quel che a volte, sul campo da tennis, ha contorni poco chiari.
I passaggi a vuoto, alcuni errori non da lui e una lunga pausa nella costanza dei risultati dal trionfo a Wimbledon 2024 sino a quello di Montecarlo due mesi fa, si spiegano con l’emotività impetuosa del suo carattere ma non solo. C’è qualcosa di più strutturale: il dissidio interiore tra la voglia di diventare il più grande giocatore della storia e la sensazione che il prezzo da pagare sia troppo alto. Che le rinunce siano inaccettabili, alla sua età. Che la felicità non sia sempre e soltanto tennis.
La serie racconta la vita di Carlos lungo i 12 mesi dello scorso anno, inframezzati da immagini del passato, quando a 13 anni il padre lo affidò a un agente, Albert Molina. Fu lui a puntare su Juan Carlos Ferrero, l’ex campione Slam che ha portato Alcaraz alla vetta del ranking costruendo un team vincente con il medico Juanjo López, il preparatore atletico Alberto Lledó e il fisioterapeuta Juanjo Moreno. Sfilano i protagonisti di una famiglia unita, semplice e allegra. Il padre ha sempre amato questo sport e ha giocato ma non poteva permettersi, da ragazzo, di pensare davvero al mondo del professionismo: troppo costoso. Molina procura gli sponsor per suo figlio, accolto nell’Accademia Ferrero. Il quale si ritrova tra le mani un talento. Lo forgia intravedendo una personalità e una voglia di arrivare che possono fare la differenza. E così sarà. L’ascesa si compie rapidamente, in parallelo all’esplosione fisica di Carlos che si struttura mietendo successi e, soprattutto, divertendosi. Il suo sorriso conquista tutti. La consacrazione più importante, a 19 anni a New York, su quel cemento che esalta i suoi colpi: nel 2022 vince gli Us Open e diventa il più giovane numero uno della storia. Al tempo stesso Carlos è legatissimo alle proprie radici, torna a casa non appena può, ama dormire nella sua stanza. Si vedono le tante paia di scarpe da tennis di vari colori in uno scaffale, i suoi trofei… Accarezza quello di Wimbledon dove ha vinto due anni consecutivi, nel ’23 e nel ’24. «Nessuno cucina come mia madre», dichiara fiero tra le risate generali, mentre si festeggia il suo compleanno. Nonna Victoria se lo abbraccia, il fratello Álvaro lo avvisa che uno scappellotto glielo darà sempre. Gli amici lo festeggiano a suon di brindisi.
Questa dimensione, così latina, si scontra con la quotidianità di allenamenti sempre più pressanti, trasferte continue in un circuito che non dà tregua, aspettative in crescita vertiginosa. Una tenaglia, un obbligo che lo soffoca. E così, spiazzando tutti, Carlos annuncia che va a Ibiza qualche giorno dopo aver vinto al Roland Garros… eresia per il team, non è il momento, c’è il torneo del Queen’s che prelude a un’erba ben più prestigiosa. Ma lui non sente ragioni, ha bisogno di staccare, di vedere i suoi amici, di uscire. Situazioni a cui non vuol rinunciare ma, evidentemente, con il senso di colpa latente.
C’è poi un altro fattore fonte di frustrazione: il tormento del paragone continuo con Nadal (un idolo per lui sin da piccolo), una persecuzione amplificata dai media che lo dipingono sempre come l’erede, colui che raccoglie il testimone, il nuovo Rafa. Il suo sguardo trafigge quando dice «Io sono Carlos Alcaraz Garfia», citando anche il cognome della mamma. Ma a Parigi va in scena il dramma delle Olimpiadi: perde il doppio in coppia proprio con Nadal, gli sfugge l’oro in singolare con Djokovic, appena battuto a Wimbledon. Carlos scoppia in lacrime, a fine partita, vestito con i colori della Spagna, nell’intervista con Álex Corretja che cerca di tranquillizzarlo: «Prenditi il tuo tempo Carlitos».
Fonte: Il Sole 24 Ore