
La voce che vi terrà inchiodati alla sedia
Sostenere la forza de La voce di Hind Rajab non vuol dire scordare le 1200 vittime e le 250 persone sequestrate nella folle strage di Hamas del 7 ottobre. Su ognuna di quelle morti ingiuste, sui prigionieri, sulle donne stuprate andrebbe fatto un film. La pellicola di Kaouther Ben Hania è costruita sulla vera voce, registrata dalla Mezzaluna Rossa, di una bambina palestinese di sei anni, Hind Rajab, che supplica i soccorritori di salvarla da un attacco dell’esercito israeliano. È il 29 gennaio 2024, Hind è nell’auto con gli zii e le cugine mentre cercano di fuggire da Gaza. La vettura viene colpita e lei è l’unica sopravvissuta. Uno zio dalla Germania la mette in contatto con i soccorritori.
La voce di Hind Rajab è un film “tecnicamente” semplice, per stessa ammissione della regista. Girato e montato in un anno, è ambientato in un open space in cui è ricostruito il cuore operativo della Mezzaluna rossa. Alla fine si aggiungono alcune scene documentali. È realizzato soprattutto da primi piani per stare addosso all’emotività dei soccorritori: la responsabile della squadra (Saja Kilani), l’operatore che per primo ha ricevuto la chiamata (Motaz Malhees), il coordinatore (Amer Hlehel) e una psicologa (Clara Khoury). Per scrivere la sceneggiatura la regista ha sentito ciascuno dei veri operatori e ha, a volte, sovrapposto le voci degli attori a quelle reali. Radicalmente veri sono, invece, i 70 minuti della voce di Hind. In tutto, il film ne dura 90 che tengono inchiodati alla poltrona lo spettatore, nonostante i momenti didascalici, come quelli in cui si spiega il protocollo kafkiano cui si devono sottoporre i soccorritori per raggiungere l’auto che in linea d’aria dista otto minuti dall’ambulanza più vicina. «Ecco in cosa consiste l’occupazione – ha precisato la regista –. Avere regole impossibili, che, se anche seguite, non portano ad alcun risultato». La voce di Hind Rajab è un film tensivo come una spy story e la cosa buffa e tragica è che lo spettatore spera in un lieto fine pur sapendo già come va a finire. Chiede al cinema, cioè, di fare il miracolo, cambiando la storia, facendolo uscire da quel ruolo sonnacchioso e di intrattenimento cui, a volte, le pellicole si autocondannano. Gli attribuisce la più nobile delle funzioni dell’arte, quella di salvare le persone.
In molti alla Mostra del cinema di Venezia, dove è stato proiettato in concorso, hanno storto il naso, dicendo che La voce di Hind Rajab non è cinema. Forse non è il capolavoro del secolo, ma nemmeno Nomadland, Leone d’oro nel 2020, ha cambiato la storia. Era forse cinema-cinema Tutta la bellezza e il dolore, documentario di Laura Poitras su Nan Goldin e l’epidemia di oppioidi negli Stati Uniti? Ha vinto giustamente il Leone d’oro e nessuno ha fatto polemiche. Il film di Ben Hania è una di quelle pellicole che squassano e interrogano, fanno cioè quello che deve fare l’arte. La giuria ha voluto per questo film impellente, distribuito da I Wonder Pictures, il secondo posto, ovvero il Leone d’argento Gran premio della Giuria. La Mostra, che ha il dovere di scuotere e scompaginare, mettendolo in concorso ha dimostrato di essere all’altezza del suo nome. Non così la giuria di Alexander Payne e, forse, se è vero, nemmeno il Festival di Cannes che lo ha scartato: la regista non ha confermato, ma nemmeno smentito l’esclusione. È stato anche detto che La voce di Hind Rajab è una pellicola ricattatoria, ma il ricatto si accende quando lo spettatore è costretto a “subire” un sentimento che potrebbe investirlo. Per fortuna, nessuno di noi è nelle condizioni e, spero non lo sarà mai, della piccola palestinese. Molti hanno detto che si sarebbero aspettati di piangere e, invece, questo non era accaduto. La pellicola è, infatti, liberatoria: dà l’occasione di contribuire alla perpetuazione della memoria di un innocente, come ha voluto la madre di Hind, autorizzando l’uso della registrazione. La visione, il passaparola per aiutare il film contribuisce a dar voce all’impotenza di migliaia di cittadini che chiedono di fermare il genocidio, come quelli che sono scesi in piazza lunedì scorso.
La regista stessa è consapevole che il cinema non può fermare la guerra, ma arginarne la disumanizzazione. Kaouther ben Hania, marocchina, 48 anni, ha studiato cinema a Tunisi, si è poi laureata alla Sorbona. Usa il documentario come arma di fiction e viceversa: il suo primo film, Le Challat de Tunis, è un falso documentario di satira sulla condizione della donna in Tunisia. L’uomo che vendette la sua pelle del 2020, con Monica Bellucci, raccontava di un siriano, che per ottenere i documenti di espatrio, accetta di tatuarsi un visto di Schengen sulla pelle e di essere esposto come opera d’arte contemporanea in un museo. È stato il primo film tunisino ad essere candidato all’Oscar al miglior film internazionale. La Tunisia ha già annunciato che anche la storia di Hind concorrerà alle statuette e si spera in bene, visto che ne sono produttori esecutivi e sostenitori Pitt, Phoenix, Cuarón, Mara e Glazer. Dateci dentro al botteghino, anche per prenderne le distanze. Finalmente il cinema torna a far discutere.
Fonte: Il Sole 24 Ore