
Le tre nonne di Kaha Aden
Kaha Mohamed Aden aveva tre nonne. È di loro che parla quando le chiedono un autoritratto, che diverrà il suo primo racconto. Nata a Mogadiscio nel 1966 e trasferitasi a Pavia nel 1987, dove, dopo essersi laureata in Economia, ha vissuto il resto della sua vita, la scrittrice e attivista anziché sé stessa descrive le sue antenate. «Tre donne molto forti, diverse fra di loro e discendenti dei nomadi – come del resto tutti i miei parenti. Due di loro sono cresciute in città; l’altra invece è nata e vissuta nella savana e veniva in città solo quando si ammalava». Era il suo modo di spiegare agli italiani chi fosse: «non si vede, perché parlo italiano, ma le mie nonne sono dentro di me e hanno un peso importante». Era anche il suo modo di dire ai somali «perché in tutto quello che faccio ho sempre due sguardi, e parlo sempre sia a un’ipotetica persona somala che a un’ipotetica persona italiana – che si può avere non soltanto una discendenza biologica, di sangue, ma anche una discendenza, e di conseguenza un’identità, elettiva: quello su cui hai lavorato, hai studiato, che non è per forza legato alla terra in cui sei nato o al tuo corredo biologico(…) Ho aggiunto una nonna elettiva, la donna che mi ha fatto il rito somalo che si chiama gardaaris e che fino ad allora si faceva solo ai maschi (quando, una settimana dopo la nascita, una persona porta per la prima volta il neonato fuori di casa, ndr). La terza nonna è anche un antidoto per contrastare in maniera indiretta, poetica, la legge sulla cittadinanza in Italia, in cui la questione dell’appartenenza etnica ha un peso fondamentale. Anche nella guerra somala la discendenza patrilineare clanica ha avuto un peso notevole. Dunque per me era un modo per dire che la nostra identità può essere determinata da qualcosa di elettivo, una letteratura, una passione, insomma che si possono scegliere le cose che costituiscono la nostra identità» racconta l’autrice a un’altra scrittrice, come lei italiana e somala, Ubah Cristina Ali Farah concludendo «sono un po’ tutto, e praticamente niente».
Lo si legge nella raccolta di interviste dedicata a Aden Controverse. Scrivere in diaspora, poetiche del divenire, a cura di Livia Apa e Ali Farah: un interessante dialogo su carta tra due generazioni di scrittrici italiane: Gabriella Ghermandi, Espérance Hakuzwimana, Wissal Houbabi, Djarah Kan, Gabriella Kuruvilla, Kaha Mohamed Aden, Stella N’Djoku, Igiaba Scego, Nadeesha Uyangoda.Ali Farah del resto, nel suo Le stazioni della Luna (66thand2nd) narra di una ragazza italiana con due mamme: una è la mamma “di latte”, la donna somala che l’ha allattata e aiutata a crescere.
Scomparsa nel 2023, per Kaha Aden, «prima scrittrice afroitaliana che esce di scena», è stato appena pubblicato anche un altro libro, che raccoglie invece 23 racconti, quasi tutti inediti, di suoi amici, scrittrici e scrittori italiani che, come le precedenti, “stranamente” non vengono inclusi nella letteratura italiana, ma incasellati nella letteratura migrante (o definizioni simili) che oltretutto non è un sottoinsieme, e neppure un insieme inersecante quello della letteratura italiana. E questo non solo perché alcuni sono nati in un Paese che non è l’Italia, anche se ci vivono da lungo tempo e scrivono in italiano, ma anche solo perché hanno un genitore che proviene da Paesi non “bianchi” (non sarebbe definito scrittore migrante uno scrittore nato in Italia e con un genitore francese o statunitense, sarebbe definito italiano).
Si intitola Sorella d’inchiostro, frase tratta dal ricordo di Tahar Lamri, ed è un esemplificativo ventaglio degli autori anche italiani, e originari dell’Africa, che a partire dagli anni ’90 hanno raccontato in italiano non solo le culture d’origine, ma anche e soprattutto il rapporto con l’Italia e gli italiani «creando così un quadro dell’incontro con l’altro e indagando sulla migrazione come fatto esperienziale», spiega l’africanista Itala Vivan, che lo ha curato con gli scrittori Gabriella Ghermandi e Kossi Komla-Ebri. Vivan, che firma anche l’introduzione, fa notare come gli africani che sono venuti in Italia, diversamente da quelli trasferitisi in altri Paesi colonizzatori, «abbiano stabilito un rapporto particolare con la lingua italiana. La grande maggioranza di loro, infatti, sono arrivati senza conoscerla, e l’hanno appresa in situazioni disparate, spesso attraverso la comunicazione orale. Questo fattore ha giocato un ruolo fondamentale nella strutturazione del loro italiano, ricco di oralità ed esente da quelle rigidezze normative che caratterizzano una lingua fortemente impressa dalla tradizione scritta strettamente legata a un italiano letterario». Essendosi anche «trovati a dover giostrare con il doppio binario di italiano/ dialetto, così spiccato in Italia, sono diventati degli scrittori italiani del tutto nuovi, che contribuiscono al già variegato panorama linguistico italiano con degli elementi di autentica innovazione». La lingua italiana «così vicina e così lontana: nostra isola di libertà e, ancora una volta, di esilio» afferma Lamri nel salutare l’amica Kaha.
E in effetti questo volume, firmato anche da Emmanuel Edson Moukoko, Hamid Barole Abdu, Jorge Canifa, Amor Dekhis, Erminia Dell’Oro, Soumaila Diawara, Abdou M. Diouf, Shirin Ramzanali Fazel, Pap Khouma, Karim Metref, Sonia Lima Morais, Ingy Mubiayi, Paul Bakolo Ngoi, Rahma Nur, Judicael Ouango, Paola Pastacaldi, Angelica Pesarini, Igiaba Scego, Abdelmalek Smari, Maria Abbebu Viarengo, è un viaggio in un’Italia sconosciuta ai più e che ha molto da dire, su sé stessa e sul resto del Paese. Forse anche per il fatto di conoscere bene altre culture che permette agli autori di mettere una distanza con la nostra realtà che consente di vederla più lucidamente, in un contesto d’insieme e di non avere le barriere mentali favorite dall’essere cresciuti in un unico posto da persone che, pure, non hanno conosciuto altro.
Fonte: Il Sole 24 Ore