Lo Stranamore per la stanza dei bottoni
è diventato un caso House of dynamite di Kathryn Bigelow, primo per visioni a livello globale su Netflix. La piattaforma, che ha prodotto il film, si sfrega le mani ancor più per le reazioni ombrose e risentite del Pentagono verso la pellicola, che fanno aumentare i click. I vertici della Difesa Usa mugugnano sul fatto che il thriller ipotizzi sciatteria, imprecisione e vulnerabilità della più grande potenza mondiale di fronte a un’aggressione.
La pellicola prende l’abbrivio grazie alla forza dubbiosa e criptica femminile – che non va mai a discapito della professionalità nei film di Bigelow –, del capitano Olivia Walker (Rebecca Ferguson), che si trova a gestire l’emergenza per antonomasia nella Situation Room della Casa Bianca. La trama, in tre quadri, racconta dello scollamento della società americana di fronte alla minaccia di un missile nucleare, di provenienza ignota, che sta per abbattersi sugli Stati Uniti. Rilevato dai radar di una base militare in Alaska, secondo le stime degli esperti, in 19 minuti dovrebbe colpire Chicago, uccidendo più di 10 milioni di persone. Subito si attivano le forze militari, diplomatiche, gli esperti, gli analisti della Difesa, i vertici dell’Esercito, il Governo in contatto con il presidente degli Stati Uniti (Idris Elba) per stabilire chi abbia iniziato l’offensiva, come reagire e neutralizzarla.
Diversamente dallo Stranamore di Kubrick, in House of Dynamite non si sospetta della Russia, ma della Nord Corea. E se Kubrik aveva girato una satira sull’incompetenza degli uomini al comando e sulle debolezze dei controllori, qui c’è ben poco da ridere, tranne che dei malfunzionamenti di collegamento con il Cremlino nell’era più connessa della Storia. Con questo film la regista abbandona il fronte, teatro dei suoi precedenti film, ed entra nella stanza dei bottoni, dove la stessa vicenda è guardata dai protagonisti in base al proprio portato personale e professionale, assumendo decisioni che oltrepassano le loro competenze.
The hurt locker e Zero dark thirty di Bigelow hanno cambiato il mondo del cinema, dimostrando che i film muscolari, a fucile imbracciato e mimetica, non sono appannaggio esclusivo del mondo maschile.
L’impronta, non meno cruenta, di queste pellicole è quella magistrale di Coppola in Apocalypse now, ma trasportata nei nuovi scenari di guerra in Iraq e in Pakistan, visti attraverso esplosioni, campi militari, di sminamento e nel conto alla rovescia dei soldati per tornare a casa. Bigelow mette la sua macchina da presa ansiogena a servizio di un’azione testosteronica, applicandola a un contesto che non è fatto solo di psicosi ma anche di bilanciamenti e spaesamenti. Questo nuovo, duplice passo, violento e riflessivo, le ha fatto conquistare, prima donna di sempre, l’Oscar per la regia di The hurt locker nel 2010. Precisa e accorta nella verosimiglianza dei movimenti, degli equipaggiamenti, delle dinamiche belliche, Bigelow registra senza trasporto e senza giudizio la dipendenza dei militari dall’adrenalina, tra coraggio e alienazione. Tema già esplorato, si dirà, ma chi l’aveva mai riportato così abilmente agli anni Novanta e 2000?
Fonte: Il Sole 24 Ore