«Macbeth»: la nuova, elegante trasposizione di Joel Coen

L’esodio in solitaria di uno dei più importanti registi del cinema americano contemporaneo: «Macbeth», da poco arrivato su Apple TV+, è il primo lungometraggio firmato unicamente da Joel Coen, autore che insieme al fratello Ethan ha dato vita ad alcune delle pellicole più significative degli ultimi decenni, da «Fargo» a «A Serious Man», passando per «L’uomo che non c’era» e tanti altri.

Si tratta di un nuovo adattamento dell’immortale capolavoro di Shakespeare, già portato sul grande schermo da nomi del calibro di Orson Welles (nel 1948), Akira Kurosawa («Il trono di sangue» del 1957) e Roman Polanski (nel 1971), ma sappiamo che a Coen l’ambizione e il coraggio non mancano.Bastano poche immagini per notare come l’approccio del regista sia diverso da molte trasposizioni shakespeariane contemporanee (tra cui un altro «Macbeth», mediocre, firmato Justin Kurzel del 2015): il film, proposto direttamente sulla nota piattaforma senza passare dalle nostre sale, si identifica da subito con il suo bianco e nero ad alta definizione, raggelante e raffinato allo stesso tempo, perfetto per sfruttare al meglio i tanti giochi di luce e ombra che sembrano rimandare addirittura all’espressionismo tedesco degli anni Venti del Novecento.

Un’estetica efficace e due grandi interpretazioni

Coen non è interessato ad attualizzare il «Macbeth», ma a cristallizzarne la potenza narrativa, all’interno di una struttura visiva claustrofobica e capace di trasmettere i tormenti dei personaggi in scena.Alla lunga si nota come la confezione sia decisamente di maniera e non manchi una certa furbizia nella costruzione dell’immagine (come spesso avviene nei film prodotti dalla A24), ma l’estetica risulta comunque nel complesso efficace e regala diverse inquadrature da pelle d’oca, affascinanti e pronte a rimanere a lungo impresse dopo il termine della visione. Da segnalare positivamente anche la grande attenzione nella gestione della pista sonora, suggestiva quanto le immagini: non a caso il direttore della fotografia è il bravissimo Bruno Delbonnel, mentre il compositore è l’altrettanto bravo Carter Burwell, abituale collaboratore dei fratelli Coen.Notevole la prova di Frances McDormand nei panni di Lady Macbeth, ma ancora più memorabile è la performance carnale e di rara intensità di un Denzel Washington semplicemente in formissima e perfettamente in parte.

Aline – La voce dell’amore

Film meno suggestivo nell’apparato visivo, ma ugualmente interessante, è «Aline – La voce dell’amore», lungometraggio ispirato alla vita di Céline Dion.Al centro la storia di una ragazza dalla voce straordinaria. Quando il produttore musicale Guy-Claude la ascolta per la prima volta, si prefigge un unico scopo: fare di Aline la più grande cantante del mondo. Sostenuta dalla sua famiglia e guidata dall’esperienza e poi dall’amore crescente di Guy-Claude, Aline inizierà una carriera straordinaria.Scritto, diretto e interpretato da Valérie Lemercier, nota attrice francese qui alla sua sesta prova dietro la macchina da presa, «Aline – La voce dell’amore» è un film profondamente romanzato e in questo sta proprio, un po’ paradossalmente, il suo massimo punto d’interesse.Lontana dall’agiografia e dall’obbligo di aderenza alla realtà tipici dei biopic, la pellicola ci mostra una versione solo ipotetica di Céline Dion, a partire dal cambiamento del nome del personaggio principale.In questo modo, nonostante una messinscena piuttosto tradizionale, la sceneggiatura riesce a lavorare con maggiore libertà e a concedersi diversi passaggi anticonvenzionali e, volutamente, poco plausibili.È un esperimento curioso, soprattutto per questa ragione, e particolarmente sentito dalla sua autrice, seppur non manchino qualche calo di troppo nella parte centrale e alcune sequenze davvero retoriche.

Il tempo rimasto

Tra le novità in sala si segnala anche il nuovo documentario di Daniele Gaglianone, «Il tempo rimasto», un film che mette al centro della narrazione il tempo, parlando della vita trascorsa, della vecchiaia e di quel che rimane da vivere.I protagonisti della storia sono diversi anziani che, con i loro racconti, tornano indietro e hanno l’impressione di trovarsi di nuovo là, dove una volta sono stati. Più che interviste sono dei veri e propri ascolti che compie il regista, dando vita a una toccante riflessione sulla vecchiaia e su quello che può nascere quando si ripensa al passato, facendo un confronto tra il tempo che resta e quello che si è vissuto.Semplice nella forma, «Il tempo rimasto» ha contenuti profondi e capaci di emozionare: un film da vedere.

Fonte: Il Sole 24 Ore