Meloni alla prova partecipazione, per Schlein test sulla linea del Pd e sulle alleanze

Meloni alla prova partecipazione, per Schlein test sulla linea del Pd e sulle alleanze

Tolto di mezzo dalla Corte costituzionale il quesito sull’autonomia differenziata targata Lega – a novembre con la riscrittura, di fatto, della legge Calderoli e a gennaio con lo stop vero e proprio al voto – l’appuntamento referendario dell’8 e 9 giugno ha indubbiamente perso il motore politico più forte, quello che avrebbe potuto mettere in crisi il governo Meloni e segnare forse il punto di inversione di tendenza tanto evocato dalla segretaria del Pd Elly Schlein («se il referendum avrà successo la premier dovrà riflettere sul fatto che il rapporto con il Paese si è definitivamente rotto, come si è già visto alle amministrative», è il refrain di queste ore).

Il miraggio del quorum e l’asticella dei 12 milioni di votanti

La verità è che, al di là delle dichiarazioni ufficiali, nessuno pensa che possa essere raggiunto il quorum del 50% più uno degli elettori (oltre 25 milioni) necessario per validare il referendum. Ed è così che lunedì sera non si conteranno tanto i sì e i no ai cinque quesiti – uno sulla cittadinanza e quattro sul lavoro contro quel che resta del renziano Jobs act – quanto i partecipanti al voto: secondo molti analisti politici per le opposizioni e la Cgil, che hanno promosso il referendum, sarebbe un successo politico se si sfiorasse almeno il 40% (20 milioni), ma nel Pd e nel sindacato di Maurizio Landini si è abbassata prudentemente l’asticella a 12 milioni: lo stesso numero di elettori che alle scorse politiche hanno scelto i partiti del centrodestra.

L’attenzione di Meloni alla partecipazione in vista delle politiche

Dodici milioni, dunque. Il che sarebbe comunque un segnale di allarme per Giorgia Meloni. E probabilmente la convincerebbe a rompere gli indugi e cambiare la legge elettorale nazionale in modo da mettere il più possibile in sicurezza il vantaggio elettorale che ancora la maggioranza registra nei sondaggi con l’eliminazione dell’aleatoralità dei collegi uninominali e l’introduzione di un premio di maggioranza del 55% per la coalizione che supera il 40% dei voti. Non a caso la premier ha scelto un modo per così dire originale di invitare all’astensione per evitare che il numero dei votanti raggiunga un livello di guardia: andrà al seggio – ha annunciato – ma non ritirerà le schede. Un’astensione di fatto senza però correre il rischio dell’effetto Craxi (nel 1991 il leader socialista invitò ad andare al mare e il referendum sulla legge elettorale passò). Per l’astensione si sono schierati d’altra parte i partiti del centrodestra, da Fratelli d’Italia alla Lega a Forza Italia, con l’eccezione del piccolo Noi Moderati di Maurizio Lupi che invita a votare 5 no.

Campo largo in libertà: le posizioni del M5s e dei centristi

Una conta tra maggioranza e opposizione, dunque? Non proprio. Il problema, per Schlein, è che le posizioni sono variegate anche all’interno del campo largo, con il M5s di Giuseppe Conte che ha lasciato libertà di voto sul quesito presentato dal segretario di Più Europa Riccardo Magi che mira ad abbassare da 10 a 5 anni il tempo per richiedere la cittadinanza italiana ed è schierato per 4 sì ai referendum sul lavoro. All’opposta sponda del campo largo c’è Azione di Carlo Calenda che al contrario è per il sì al solo quesito sulla cittadinanza. Ma le divisioni sono soprattutto interne allo stesso Pd: a fronte della linea ufficiale ribadita dalla segretaria di 5 sì, come Alleanza Verdi Sinistra e Cgil, la linea prevalente dei riformisti della minoranza è per due sì (cittadinanza e infortuni sul lavoro) e tre no (i quesiti che riguardano vari aspetti del Jobs act).

Il niet dei riformisti del Pd sul Jobs act: non abiuriamo

La maggior parte della classe dirigente che dieci anni fa, con Matteo Renzi segretario del Pd e premier, votò convintamente la riforma del lavoro non se la sente insomma di fare pubblica abiura e rivendica quella stagione: tra i nomi, per dire, ci sono l’ex premier Paolo Gentiloni e gli ex ministri Lorenzo Guerini, Graziano Delrio e Marianna Madia. E ci sono anche gli ultrariformisti di LibertàEguale di Enrico Morando, Stefano Ceccanti e Giorgio Tonini che invitano a votare solo sulla cittadinanza e a non ritirare affatto le altre. Quanto a Renzi, “padre” del Jobs act, un po’ macchinosamente ha dato queste indicazioni di voto: sì al quesito sulla cittadinanza, no al quesito sui licenziamenti e i contratti a tutele crescenti e a quello sulla reintroduzione delle causali nei contratti a tempo determinato e libertà di voto sugli altri due quesiti, quello sulla responsabilità in caso di incidenti sul lavoro e quello sui licenziamenti, e i relativi risarcimenti, nelle piccole imprese.

Fonte: Il Sole 24 Ore