Miran, l’ideologo della Trumpeconomics: dai dazi al controllo sulla Fed

Miran, l’ideologo della Trumpeconomics: dai dazi al controllo sulla Fed

Nel breve periodo, la valuta del Paese esportatore potrebbe essere deprezzata in misura proporzionale alla tariffa applicata. Così facendo, l’aumento del prezzo finale in dollari del bene importato può essere del tutto annullato. In questo caso – al di là che l’impatto inflazionistico risulta nullo – l’effetto sul cambio della valuta statunitense rimarrebbe limitato: il dollaro – in teoria- non si indebolisce, almeno non subito, e questo va nella direzione opposta a quella auspicata dai fautori della misura.

La prospettiva di lungo termine si basa – da parte sua – su un meccanismo valutario più complesso. Ogni importazione pagata in dollari implica che questi vengano poi scambiati con la valuta locale del fornitore estero. Questo flusso costante di biglietti verdi in uscita non determina automaticamente un indebolimento del dollaro, poiché la sua funzione di riserva di valore internazionale ne alimenta la domanda globale: gran parte dei dollari usciti rientra sotto forma di investimenti.

Riducendo – invece- le importazioni attraverso dazi mirati, si limita la quantità di dollari che circolano all’estero e, di conseguenza, la necessità di convertirli in altre valute. Ed è questo cui punta Miran: con meno domanda internazionale per la moneta americana, la pressione al rialzo sul tasso di cambio si attenua, aprendo la strada a una graduale svalutazione.

I Plaza Accord

In questa logica, le tariffe non sono solo uno strumento economico ma anche un mezzo di pressione politica, utile per spingere altri Paesi ad accordi multilaterali che prevedano interventi coordinati sui mercati valutari. Un precedente storico spesso citato è l’intesa del 1985 (”Plaza Accord”) tra le principali economie industrializzate, nota per aver ridimensionato un dollaro eccessivamente forte tramite azioni congiunte. All’epoca l’operazione ebbe successo, ma oggi le condizioni geopolitiche sono molto diverse: mancano sia il consenso internazionale sia il contesto di cooperazione che rese possibile quell’esperimento.

Indipendenza della Fed? No!

Infine i rapporti tra politica e banche centrali, in particolare la Fed. Miran, rispetto a questo fronte, ha espresso più volte una visione critica sull’attuale livello di indipendenza della Federal Reserve, sostenendo che sia sopravvalutato e che la banca centrale sia già, in parte, integrata nell’azione dell’esecutivo. In un articolo su Barron’s ha affermato che la separazione tra politica fiscale e monetaria è già in parte erosa, e che «Se è vero che le persone determinano la politica, allora la Fed è già integrata con il resto del potere esecutivo».

Fonte: Il Sole 24 Ore