
Nei non luoghi dove abita la malattia
La foto di una finestra d’ospedale: il davanzale in granito lucidato e sopra una pianta da interno. La finestra a sua volta inquadra un tetto basso, sormontato dal grigio groviglio di tubi d’aerazione. Una prima mise en abyme fotografica, che si inserisce poi in un’altra cornice, quella di un duplice racconto: l’ecfrasi delle immagini, che a loro volta ritraggono ciò che vede un figlio quando accompagna la madre in ospedale dopo un sospetto, breve momento di assenza, e – seconda narrazione che ha per tramite le parole – il resoconto delle visite fatto dal figlio.
Un altro scatto, la sorpresa di «un paio di mocassini appuntiti alla Aladino, con le punte arrotondate e incurvate verso l’alto, bianche avorio con cuciture dorate» che occupano «lo spazio con inusuale grazia» nella sala d’aspetto, per il secondo appuntamento, in attesa di un encefalogramma. Poi «nessuna vera finestra. Solo corridoi, ascensori, e piani sotterranei». Nessuna foto e, invece dell’ecfrasi, un altro tipo di descrizione, quella piena di sigle e sgrammaticata del referto, che rileva una «voluminosa formazione espansiva con componente solida con diametri traversi di 4 x 3 cm».
È un gioco di specchi, di smarrimenti e di improvvise, quasi impercettibili, agnizioni la delicatissima narrazione di un percorso nella malattia di una madre fatta dallo studioso e poeta-fotografo Francesco Deottoin Finestre.
Il figlio la accompagna alle visite, la visita durante i ricoveri e ogni volta descrive le finestre, i giochi di luce sui vetri sporchi delle porte mangiafuoco, le vetrate opache dove però «qualcosa si vede, qualcosa, a suo modo, riesce a passare». Le foto ritraggono poi corridoi piastrellati dove le finestre sono solo in alto: non si vede il mondo, si vede solamente il cielo. E dopo non si vede nemmeno più quello: corridoi senza finestre, corridoi sotterranei.
Testi brevi, una prosa poetica che sta in una pagina, asciutta ed esasperata nella sua clinica precisone descrittiva. Testi rettangolari, dunque, come finestre, forse a testimoniare anche con la loro forma, l’ossessiva e quasi casuale ricerca di una traccia, di una concatenazione, di una regolarità che possa suggerire un qualche significato, qualche percorso, la pista per una guarigione, mentre l’autore non smette di giocare con i rimandi, le citazioni interne, e alle finestre sostituisce ricordi di quadri di Rothko, o gli schermi delle televisioni nelle disadorne sale d’aspetto, nei non-luoghi in cui abita chi è colpito da una malattia improvvisa. Non-luoghi che si affastellano, come i referti, come i colpi del ping pong della burocrazia dei ricoveri, delle Asl e delle Rsa, in un’incessante digressione nella quale il filo della narrazione è tenuto da una disperazione luminosa e lieve.
Fonte: Il Sole 24 Ore