
Nella miniera dello scriba del tennis
Possedeva quello spirito British – nel senso di elegante e puntuale – anche nell’archiviazione del suo patrimonio: gli articoli pubblicati in oltre sessant’anni rilegati in faldoni e accuratamente incorniciati da un evidenziatore rosso, a farne risaltare la presenza in pagina; le riviste specializzate di tennis catalogate con perizia e precisione; i libri – propri e altrui – a documentare il costante aggiornamento su tutto quel che veniva edito, dalle biografie ai manuali, dai volumi di statistica ai romanzi; i manifesti dei tornei, esemplari grafici di altrettanto valore estetico (come quello in pagina), un viaggio nel viaggio di questo sport, accanto alla scrittura.
Spulciando qui e là le collezioni di un giornalista e scrittore come Gianni Clerici, che ha attraversato il secondo Novecento e i primi due decenni di questo secolo, c’è da perdere la testa. Donate dalla famiglia all’Università Cattolica di Brescia, dove i lavori di riordino e di inventario sono in corso sotto la guida attenta di Pierangelo Goffi – responsabile della biblioteca, delle raccolte storiche e degli archivi dell’ateneo – sono una vera e propria miniera che comprende quasi duemila fotografie, bozze di libri (poi usciti) con le correzioni di intellettuali come Giorgio Bassani e Mario Soldati, carteggi con amici e protagonisti della cultura italiana come Oreste del Buono e Alberto Arbasino.
Chi ama il tennis potrebbe approntare una tenda e fare una convenzione con la mensa dell’università, perché fermarsi poche ore proprio non basta. Anche solo leggere alcune delle cronache sulla «Gazzetta dello Sport», sul «Giorno» e, naturalmente, sulla «Repubblica» è un godimento per l’uso delle parole (prima ancora che per le valutazioni strettamente tennistiche). Per certi ritratti indimenticabili, come quello del barone von Cramm all’indomani della morte, per alcuni titoli graffianti (vedi “Becker gambe di marmo”) o affettuosi (“Monsieur Panattà ha incantato i parigini”) ispirati dalla sua penna. Per la delusione «di cui lo scriba non ricorda l’eguale», la famosa finale del 2019 persa a Church Road da Roger Federer con Novak Djokovic dopo aver dissipato due match point: non sarebbe stato più giusto un pareggio, per una volta?, conclude amareggiato in un corsivo.
Ma questa è solo una fetta della torta. Le raccolte delle riviste – a partire dalla più antica d’Italia, «Il Tennis italiano», accanto all’americana «World Tennis», all’inglese «Lawn Tennis» e a molte altre – ci trasportano in un’altra era di questo sport, così come gli ordinati quaderni con i risultati del Clerici giocatore (di tutto rispetto, peraltro, essendo stato nel 1953 a Wimbledon e nel 1954 a Parigi) e le foto in bianco e nero con altri eleganti atleti di quegli anni come Fausto Gardini e Umberto (Bitti) Bergamo. Mentre si guardano le dediche di Lea Pericoli e Novak Djokovic vergate sui rispettivi libri, gli occhi corrono tra gli scaffali dove campeggiano diverse enciclopedie del tennis, sostano sulla sua giocatrice preferita di sempre, la divina Suzanne Lenglen. Poi si soffermano sui colori dei pannelli lungo le pareti che riproducono alcuni manifesti: l’epica finale di Coppa Davis del ’76 tra Cile e Italia su fondo blu, il centrale di Wimbledon (1997) in un trionfo di verde, la terra infuocata del Roland Garros (1984) che si solleva solo a guardarla.Un salto in deposito regala altre sorprese, come i taccuini su cui il nostro annotava l’andamento delle partite, magari preparava già l’attacco di un pezzo o fissava commenti che gli sarebbero tornati utili per ricordare un punto, come il quadruplo “Fuck!” a margine di un match tra Serena Williams e Lindsay Davenport. Grossi tubi contengono manifesti e locandine in attesa di trovare un’adeguata collocazione, così come centinaia di foto che saranno presto identificate e catalogate, non soltanto legate al tennis. Raccontano i viaggi e la curiosità del mondo di chi le ha scattate. Tra carte e cimeli di vario genere, non mancano un libro-disco sulla Davis del ‘76 del giornalista Mario Giobbe, con la voce di Paolo Bertolucci che trasmette la forza e l’affiatamento di quella grande squadra, e il Tennis pocket Book, un quadernetto sul Roland Garros del 1999 con le statistiche di Rino Tommasi, compagno di memorabili telecronache.
Prima di andar via l’ultima curiosità: cosa ha detto lo scriba di un certo Jannik Sinner, quando cominciava a farsi notare? Ecco sulla «Repubblica», l’8 novembre 2019, il suo giudizio alla vigilia della semifinale delle Next Gen Atp Finals con Miomir Kekmanovic (poi vinte dall’altoatesino, che allora aveva diciotto anni): «I suoi colpi sembrano esistere dai tempi dell’asilo, dal giorno in cui, come tutti gli sportivi della sua zona, poteva essere uno sciatore (…) Non si è mai visto un tennista italiano più dotato, e lo posso affermare proprio io che ho incontrato su un campo del vecchio Parioli Nicola Pietrangeli sedicenne». Tutto torna, capite? L’ascesa di Jannik è una storia già scritta, custodita nelle pagine e negli sguardi di Gianni Clerici. Bastava solo saperla leggere.
Fonte: Il Sole 24 Ore