
Nine Inch Nails: il fascino brutale di Trent Reznor incanta Milano
Unica data italiana per il Peel It Back Tour: scaletta audace, luci essenziali e un finale da brivido con Hurt. Trent Reznor si conferma artista totale, capace di passare da Hollywood alla chitarra senza perdere profondità
Trent Reznor e Wolfgang Amadeus Mozart: c’è un filo sottile che lega il compositore salisburghese e il fondatore dei Nine Inch Nails, nome di culto per gli appassionati di quel rock “industriale” esploso negli anni 90. Entrambi si ritrovarono davanti a un pianoforte a cinque anni e per entrambi, straordinari enfant prodige, quei tasti furono una rivelazione: la loro musica aveva il potere di incantare e conquistare.
Peel it back tour
Quella consapevolezza profonda della potenza unica delle note si ritrova ancora oggi, intatta, nell’artista nato nel 1965 a New Castle (Pennsylvania) e lo ha dimostrato ieri sera al Parco della Musica di Milano, unica data italiana del suo Peel it back tour. Ad aspettarlo c’era una corte formata (in parte) dai fan storici, teste imbiancate ma cuori rimasti fedeli alle chitarre distorte. E Trent Reznor, a 60 anni appena compiuti, ha dimostrato di non aver perso un briciolo di quella sua capacità di entrare nel cuore e nella testa di chi lo ascolta.
Sul palco milanese, Reznor (insieme al geniale compositore e produttore Atticus Ross, all’italiano Alessandro Cortini, a Robin Finck e Ilan Rubin) ha proposto un viaggio denso, brutale e lirico insieme, dove il rock più viscerale e l’elettronica visionaria si sono fuse con atmosfere cinematografiche sofisticate. Sono tornati brani inattesi e spiazzanti come la surreale e ipnotica Piggy, assente da molti anni dai live, accanto a sorprese come The perfect drug, capolavoro rock realizzato per Lost Highway di David Lynch. Quella dei Nine Inch Nails è stata una performance dura, senza spazio a fronzoli e scenografie da grande show: solo giochi di luci ipnotizzanti e due schermi che trasmettevano le immagini dal palco, in bianco e nero. Reznor – di poche parole per tutta la serata – ha rotto il silenzio esclusivamente per rivolgere un breve omaggio all’amico David Bowie, prima di lanciare I’m Afraid of Americans, in una versione martellante che ha entusiasmato il pubblico.
Bowie e Lynch non erano stati gli unici a intuire e poi consacrare il genio di Reznor: il regista David Fincher l’aveva voluto per la colonna sonora di The Social Network (2010), premiata con l’Oscar (il secondo Oscar nel 2021, per il film d’animazione Soul). Johnny Cash aveva realizzato una indimenticabile cover di Hurt, omaggio a una delle canzoni più intense e strazianti di tutta la carriera di Reznor. Una carriera che, a rileggerla ora, appare più che mai complessa e allergica a definizioni e limiti di genere: dopo aver fondato i Nine Inch Nails nel 1988, Reznor ha in parte definito un genere (l’industrial rock) con album come Pretty hate machine, The Downward Spiral e The Fragile. Poi è arrivato a Hollywood, ci ha flirtato a modo suo, e sono arrivati gli Oscar e i Golden Globe. Tra gli ultimi successi, la colonna sonora di Challengers del regista Luca Guadagnino, firmata (come molte altre) insieme allo stesso Atticus Ross.
Fonte: Il Sole 24 Ore