
No ai danni per la mancata informazione sulla terapia sperimentale
Nessun risarcimento per la mancata informazione dell’esistenza di una terapia sperimentale ai genitori di un bambino morto per un linfoma. I danni vanno esclusi in assenza della prova che il padre e la madre del piccolo avrebbero scelto una cura ancora poco seguita al posto di quella standard, indicata dalle linee guida della scienza medica. La Cassazione ha così respinto il ricorso teso a ottenere un risarcimento per l’omessa informazione di una via alternativa a quella praticata nella clinica tedesca dove il paziente era seguito. Opzione che aveva una possibilità di riuscita, pur a fronte di una prognosi infausta, del 50%, a fronte di un nuovo percorso terapeutico sul quale mancavano dati certi.
Inutilmente i ricorrenti si erano lamentati del comportamento dei camici bianchi che avevano presentato il trattamento seguito come l’unico esistente al mondo, malgrado dopo una recidiva fosse stato necessario anche procedere al trapianto allogenico da cellule staminale, altamente tossico, con un consenso che non sarebbe mai stato prestato in caso di un’informazione completa sull’alternativa. Per i medici, però, come per i giudici, quella chance non c’era, e comunque la cura non era indicata per il piccolo paziente.
Le linee guida per la patologia
La Corte d’appello, infatti, dopo aver compiuto un’analisi completa delle diverse opzioni terapeutiche disponibili, in base ai risultati della consulenza tecnica d’ufficio, ha considerato il contesto in cui sono state prese le decisioni, tenendo conto sia dell’evoluzione nel tempo delle informazioni disponibili sia delle opzioni terapeutiche, oltre che delle pubblicazioni scientifiche e dei comunicati stampa sul tema. Tutti elementi che dimostrano come la struttura abbia seguito le indicazioni che potevano dare i migliori risultati.
La prova della scelta della via sperimentale
La verifica dell’adempimento parzialmente inadeguato dell’obbligo di informazione non basta quindi per il risarcimento in assenza della prova «del nesso di causalità tra le conseguenze subite per la salute del piccolo paziente e una corretta somministrazione di una terapia curativa secondo le regole dell’arte medica – si legge nella sentenza – non avendo fornito i genitori la prova della volontà di rifiutare la terapia raccomandata, ove fossero stati adeguatamente informati dell’esistenza di quella ancora in fase sperimentale». Inoltre i giudici valorizzano una «massima di esperienza», in base alla quale difficilmente un genitore, a fronte di una cura collaudata, si affiderebbe a una in fase di studio.
Fonte: Il Sole 24 Ore