
No al secondo cognome se danneggia il minore
L’aggiunta del cognome del padre che riconosce il figlio successivamente alla madre non è automatica e può essere negata se rischia di danneggiare il minore. A confermarlo la Cassazione che, nell’ordinanza 23905/2025, boccia il ricorso di un genitore che, dopo una prolungata assenza dalla vita della figlia, aveva chiesto di riallacciare i rapporti con lei, reclamando l’affidamento condiviso e l’integrazione del suo cognome a quello materno.
Richieste che, respinte sia in primo sia in secondo grado per la poca consapevolezza dell’uomo rispetto alle esigenze e ai bisogni della bambina e la scarsa partecipazione ai percorsi di bigenitorialità e agli incontri promossi dai servizi sociali, vengono rimandate al mittente anche dai giudici di legittimità.
Alle origini della vicenda
A scatenare il tam tam legale lo scontro dei due genitori sulla paternità. Il padre della bambina, infatti, aveva depositato ricorso al Tribunale di Torino per ottenerne il riconoscimento (a quattro anni dalla nascita) ma l’ex compagna, seppur sicura sul piano biologico, aveva avanzato diversi dubbi rispetto all’incapacità dell’uomo sul piano relazionale: il semaforo verde avrebbe potuto avere, secondo lei, un impatto importante (e potenzialmente rischioso) sulla vita della piccola, considerata la relazione discontinua che fino a quel momento aveva avuto con il padre. Non solo: la donna, infatti, eccepiva anche l’incompetenza territoriale del foro. Domanda che, accolta, spostava automaticamente sul Tribunale di Ivrea la gestione del contenzioso.
Nel secondo ricorso, la madre della bambina non si opponeva più al riconoscimento ma esprimeva perplessità sulla richiesta di affidamento condiviso della minore, ribadendo che l’ex partner non aveva considerato in alcun modo la figlia fino a pochi mesi prima del processo. Non solo: reclamava anche un assegno di mantenimento. Ma le acque non si calmano e la battaglia continua con nuovi colpi di scena: con un repentino cambio di strategia, il ricorrente, infatti, era arrivato a mettere in dubbio la paternità, sostenendo che la madre avesse rifiutato di sottoporre la figlia, come concordato, al test genetico. Esame che, richiesto ed eseguito dal consulente tecnico, aveva confermato nero su bianco il legame di sangue fino a quel momento prima difeso, poi contestato.
L’orientamento del Tribunale e della Corte d’appello
Chiuse le pratiche burocratiche, i giudici di primo grado, dunque, avevano confermato la paternità del ricorrente, riconoscendo però alla mamma l’affidamento esclusivo (o rafforzato) della piccola: a lei la facoltà di prendere decisioni – in via esclusiva e autonoma – sull’educazione, l’istruzione, la salute e la scelta della residenza della bambina. Al padre, invece, avevano fornito gli strumenti per recuperare il tempo perduto: qualora, infatti, avesse manifestato la volontà di rientrare nella vita della minore, assicurando presenza costante, avrebbe dovuto intraprendere un percorso di sostegno alla bigenitorialità e partecipare attivamente agli incontri organizzati dai servizi sociali (con il coinvolgimento – se necessario – di una psicologa dell’età evolutiva, per offrire il supporto necessario alla bambina).
Fonte: Il Sole 24 Ore