
Nomade in viaggio al ritmo della natura
L’anima altrove viaggia e respira. Non serve muoversi, basta leggere il Piccolo trattato sull’immensità del mondo di Sylvain Tesson. Di piccolo ha il formato, quasi da tasca di uno zaino, per il resto vastità e vertigine: l’immensità del Tibet, gli altopiani della Mongolia, i ghiacci del Lago Bajkal e i silenzi bruciati del Sahara.
Il viaggiatore francese ha molto viaggiato e molto scritto, da Bianco a Nelle foreste siberiane, fino a Sentieri neri (tutti per Sellerio) divenuto in Italia il toccante docufilm A passo d’uomo: «Le crepe esistono, non ci resta che percorrerle a passo d’uomo». E con la sola unità di misura che conosce – il passo d’uomo, appunto – Tesson si avventura nei meandri dell’io e della bellezza che ci viene offerta dalle pagine di questo volume, datato 2005, fra Parigi, Irkutsk e Saigon, ma tradotto solo ora in italiano grazie alla sensibilità della casa editrice Piano B.
Sono appunti di viaggio, riflessioni sulla vita, stellate da ammirare e guglie delle chiese da scalare come in una foresta di pietra. Racconta monaci-mendicanti, trovatori, viaggiatori, eremiti dispersi nelle taighe, long raiders, cacciatori o esploratori dei boschi, vagabondi, Wanderer (camminatori), erranti o lupi delle steppe con cui fare un tratto di strada: «Hanno un solo segno distintivo: non sopportano che il sole, al suo sorgere, parta senza di loro». E poi, via, si va. Non per ammazzare il tempo o fuggire da qualcosa ma per prendere il ritmo della natura, lasciare l’orologio e diventare spazio: «Con la marcia mi mantengo in movimento e paradossalmente è proprio mentre avanzo che ogni cosa si arresta davanti a me perché il tempo è l’oscura inquietudine di non poterlo dominare». Camminare significa esplorare una dimensione del tempo più densa, più intima perché la lentezza rivela angoli che la velocità nasconde e perché lo sforzo fisico procura alla mente la giusta dose di oppiacei naturali.
La bellezza degli orizzonti di Tesson è ovunque fra le righe: «altrove è una parola più bella di domani», «un viaggiatore deve essere capace di scivolare dal filo d’erba al cosmo e immaginare planisferi nelle nuvole che gli passano sopra la testa», «aprire gli occhi è un antidoto alla disperazione» o anche «per pescare immagini è sufficiente gettare lo sguardo come si getta una rete». Una delle meraviglie dal vagabondare è dormire all’aperto, scegliere il faggio più robusto per dare casa all’amaca, allestire un bivacco e far pace con la notte. Mentre il fuoco sale tra le pietre e l’acqua si scalda, il cielo è il lenzuolo da cui farsi avvolgere ed è abbastanza chiaro che «il nomadismo è la migliore esperienza che si possa fare dell’equilibrio tra gli uomini e il mondo. Un equilibrio fragile in cui il nomade è un funambulo e il bivacco il suo bilanciere».
Per non sentirsi sopraffatti da tanta grandezza, è bene – suggerisce Tesson – non usare il mondo come un lettino infliggendo alla strada l’insulto di diventare la terapia delle nevrosi, ma camminare, incontrare, avere l’anima spalancata a ogni vento e libera per andare oltre ogni ideologia e ogni recinzione. Libera di misurare i ghiacci del Bajkal, nel cuore della Siberia, e scoprire i suoi abitanti. Si parte da Irkutsk con le motoslitte. Il lago, quasi un mare (è lungo più di 600 chilometri), è un’autostrada bianca dove si incontrano i Dersu Uzala, i coloni delle rive, nomadi del lago. Natasha prepara un tè caldo ma nulla in lei è significativo quanto il suo indirizzo, il più bello che si possa dare: 50 chilometri a sud del Capo Elohim, sponda occidentale del lago Bajkal, sotto un grande cedro a poca distanza dalla riva. Nelle loro capanne, altri nomadi condividono con gli ospiti fegato di alce, uova di pesce, zampe d’orso, confettura di mirtilli e l’aspra vodka per dissolvere il sapore del grasso. Sergej passa le giornate a sciare, cacciare, pescare, cucire e riparare: «una vita è realizzata quando coniuga solo verbi d’azione». C’è, poi, Victor, che apre le porte a Tesson e gli confessa di possedere tre cose: un’ascia per non soffrire il freddo, un fucile per non soffrire la fame e una Bibbia per non avere paura.
Fonte: Il Sole 24 Ore