
perché gli investitori temono per i Treasury
Un debito pubblico senza pari nel mondo, con dimensioni e costi che minacciano di uscire fuori controllo proprio nel momento in cui i suoi principali detentori all’estero potrebbero voltare le spalle e valutare alternative, spinti anche dalla prospettiva di una guerra commerciale. Il Paese di cui si parla sono chiaramente gli Stati Uniti e i titoli di Stato in discussione sono i Treasury, che rischiano di perdere una volta per tutte lo status di bene rifugio già apparso indebolito nelle ultime settimane di passione sui mercati, al pari del dollaro al quale sono indissolubilmente legati.
Gli Stati Uniti restano all’interno del G20 il Paese con il livello maggiore di indebitamento netto nei confronti dell’estero, pari all’80% circa rispetto al Pil. Non si tratta certo di una novità: finora il governo (e le imprese) a stelle e strisce hanno fatto affidamento sui flussi di capitali dall’estero per finanziare il proprio sviluppo. Questo è stato possibile per una sorta di fiducia incondizionata che appare adesso in serio in dubbio, anche a causa delle politiche minacciate dall’amministrazione Usa e a maggior ragione qualora il duello innescatosi proprio in questi giorni fra Donald Trump e il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, dovesse portare a una frattura insanabile.
Il campanello d’allarme
Lo shock causato dall’annuncio dei dazi dello scorso 2 aprile ha fatto scattare il campanello d’allarme. La tempesta scatenata ai danni degli asset più rischiosi (Borse in primis) si è stavolta accoppiata con un’insolita quanto inattesa fiammata dei rendimenti dei T-Bond che hanno «tradito» il loro tradizionale ruolo di porto sicuro per balzare sulla scadenza decennale di ben 70 punti base, oltre il 4,50 per cento. Disinvestimenti obbligati da parte degli hedge fund, vendite ad opera dei detentori esteri e generalizzati timori per la sostenibilità stessa del debito Usa sono le ragioni tirate in ballo per spiegare un movimento che si è solo in parte ridimensionato nell’ultima settimana.
I precedenti casi di risk-off
La situazione resta insomma tesa, anche perché la posta in gioco – il ruolo di leader finanziario globale detenuto da sempre dagli Usa – è davvero elevata. Non manca però chi prova a gettare acqua sul fuoco per raffreddare gli animi fra gli investitori. Nel confrontare la situazione attuale con precedenti fasi di forte avversione al rischio come lo shock Covid del 2020, la Grande Crisi Finanziaria del 2008 e la crisi scatenata dall’embargo petrolifero del 1973, l’International Institute of Finance (Iif) nota per esempio come già in passato i Treasury abbiano abdicato al ruolo di bene rifugio, almeno temporaneamente.
In alcuni di quei casi i rendimenti dei titoli sono infatti inizialmente cresciuti in termini nominali, ma soprattutto lo hanno fatto su base reale (cioè corretti per le attese di inflazione) proprio come questa volta. In più, fanno notare gli analisti di Iif, misure dello stress sull’obbligazionario quali l’indice Move (l’indice equivalente al Vix per l’azionario) e gli spread denaro-lettera sui decennali Usa «sono elevate ma non in modo allarmante», mentre le tensioni sui pronti contro termine non sono ancora «tali da innescare un intervento immediato della Fed».
Fonte: Il Sole 24 Ore