Perché la Bce terrà i tassi fermi
Tassi fermi. Lasciando le porte aperte per dicembre. La riunione di ottobre della Banca centrale europea, che si terrà a Firenze, dovrebbe confermare il costo ufficiale del credito a brevissimo termine al 2% per i depositi delle banche presso la Bce e al 2,15% per le operazioni di rifinanziamento: un livello molto basso, tenuto conto dell’andamento dell’inflazione e del presumibile tasso neutrale (non immediatamente osservabile, ma non certamente lontano). Il rischio di uno shock sulla domanda legato alla recente politica dei dazi dell’Amministrazione Trump consiglia di mantenere la politica monetaria in una posizione tale da potersi muovere agilmente in ogni direzione.
Ancora tensioni sui prezzi
L’inflazione non è ancora tornata all’obiettivo: era pari al 2,2% a fine settembre, con un’indice core in rialzo del 2,4%. Per fine anno, le proiezioni si aspettano però un’inflazione media del 2,1%, per centrare le quali occorrerebbero indici in aumento in media dell’1,9% annuo a ottobre, novembre e dicembre. Analogamente, per raggiungere il livello previsto al 2,4% per l’inflazione core occorrerebbe per ciascuno dei tre mesi un’inflazione media del 2% annuo. Il bersaglio – che è in realtà una simulazione statistica – non sembra alla portata dell’economia Ue e tagliare ulteriormente i tassi potrebbe rivelarsi un errore.
Il rialzo dell’euro
È una considerazione, questa, che suggerisce come gli ultimi tagli dei tassi siano stati decisi in un’ottica di risk management. L’ultima valutazione dei rischi da parte della Bce segnala una forte incertezza proprio sui prezzi, e in entrambi i sensi. C’è la possibilità, spiegò la presidente Christine Lagarde a settembre – che l’euro crei pressioni verso il basso sull’inflazione e se il cambio non può essere strumento o obiettivo della politica monetaria – troppo sfuggente – i suoi effetti non possono essere ignorati. Il cambio effettivo è salito molto rapidamente, da febbraio a oggi – e sono proprio i movimenti e la loro velocità a essere rilevanti – fino al punto da portarsi al di sopra della media di lungo periodo, dopo una fase piuttosto lungo sotto quella soglia, che può essere considerata con un’indicazione semplicistica del valore di equilibrio. Oggi sembra fermo in un corridoio relativamente limitato, ma nulla esclude che possa tornare a muoversi rapidamente.
Rendimenti elevati nel lungo periodo
È anche interessante come sia cambiata la curva dei rendimenti rispetto a inizio anno – poco prima dell’arrivo alla Casa Bianca di Trump e delle sue politiche commerciali – e rispetto alla precedente fase con tassi sui depositi al 2%. Nel 2022 i rendimenti a più breve termine erano più bassi, ma era una chiara anomalia rispetto ai tassi di politica monetaria. Oggi i rendimenti a più lungo e lunghissimo periodo sono invece decisamente più alti, e non è facile capire – in un’analisi puramente esplorativa – quanto sia effetto di maggiori rischi di inflazione e quanto di maggiori aspettative di crescita, per esempio attraverso gli investimenti sulla difesa (che devono però essere orientati all’innovazione per avere un moltiplicatore interessante).
Prestiti vivaci tra tassi in calo
La crescita non sembra d’altra parte segnalare preoccupazioni. Non nell’immediato, almeno. I prestiti alle imprese non finanziarie, che costituiscono la primaria fonte di finanziamento, continuano ad accelerare, con prestiti sempre in calo verso la media storica (raggiunta per esempio in Italia). Anche la disoccupazione resta vicina ai minimi. Non ci sono quindi segnali di una possibile rapida disinflazione (né un rallentamento dei prezzi richiederebbe davvero un intervento immediato, se si vuole far tesoro della lezione della lunga fase espansiva degli anni scorsi).
Fonte: Il Sole 24 Ore