Perché la Fed può, con cautela, tagliare i tassi
Un taglio dei tassi. Un altro, forse anche due, prima della fine dell’anno. Sono queste le attese per la riunione e le proiezioni economiche di settembre della Federal reserve che, con grande cautela, sarebbe pronta ad aprire una nuova fase della sua politica monetaria dopo aver tenuto i tassi fermi al 4,25%-4,50% da dicembre 2024, malgrado le forti pressioni della Casa Bianca proseguire i tagli già iniziati a settembre dell’anno scorso.
Una decisione attesa ma non scontata
La decisione è ampiamente attesa, da tempo, anche dai mercati, ma le aspettative vanno colte con molta cautela. La Federal reserve resta – come a volte accade con gli shock sull’offerta, come i dazi – combattuta tra la necessità di riportare sotto controllo l’inflazione, che appare ancora ostinatamente più elevata del desiderato, e quella di dare un aiuto all’occupazione. Il livello ancora elevato del costo ufficiale del credito a brevissimo termine lascia comunque spazio per un primo intervento.
Mercato del lavoro più debole del previsto
Lo scenario macroeconomico è rapidamente cambiato il 9 settembre, quando nell’ultima revisione dei dati sull’occupazione tra marzo 2024 e marzo 2025 è emerso che i posti di lavoro, al termine del periodo, erano 911mila in meno di quanto si era precedentemente stimato. Le revisioni dei dati sull’occupazione possono essere effettivamente molto intense, al punto che il nuovo Commissioner dell’U.S. Bureau of Labor Statistics, EJ Antoni, fedelissimo di Donald Trump, ha immaginato di azzerarle o di renderle trimestrali. La Fed, che nel mandato ha come obiettivo anche la massima occupazione sostenibile, ha però bisogno di dati tempestivi. Anche gli ultimi numeri sulle assunzioni mensili sono apparsi piuttosto deboli, con una tendenza al ribasso che si rafforza nel tempo. È una situazione che può giustificare un cauto taglio dei tassi, ancora lontani dal tasso neutrale, che gli stessi governatori valutano in mediana nel tre per cento (anche se almeno sei di loro lo indicano al 3,5% o oltre).
Inflazione in leggero rialzo
Ha molto colpito però l’aumento dell’inflazione Cpi a settembre: 2,9% ad agosto, dal 2,7% di luglio e dal 2,3% di aprile mentre l’indice core è pari al 3,1 per cento. Sono numeri che segnalano ancora un moderato surriscaldamento nei prezzi e il rischio, molto temuto, di un rialzo dell’inflazione. La Fed, pur elaborando la propria diagnosi sull’inflazione in base a tutti i dati disponibili, ha però come punto di riferimento un altro indice dei prezzi, il Pce (Personal consumption Expenditure Index), che dà un quadro di maggiore stabilità, ma anche di analoga persistenza, nell’andamento dei prezzi: resta intorno al 2,6% per l’inflazione complessiva e al 2,9% – in lieve aumento – per la core. Per valutare la differenza tra i due indici, occorre considerare che l’obiettivo di politica monetaria del 2% espresso con l’indice Pce corrisponde a un 2,3% dell’indice core Cpi.
Pressioni sui prezzi ancora forti
Sono quindi queste le due opposte sfide che la Fed deve affrontare: un mercato del lavoro debole e prezzi in rialzo. È una situazione che chiede molta cautela: non sembra infatti che il quadro complessivo dell’inflazione sia ancora abbastanza tranquillizzante da poter immaginare tagli dei tassi aggressivi come quelli desiderati da Trump, che ha ora tre governatori a lui vicini (Michelle W. Bowman e Christopher J. Waller, che hanno comunque un orientamento non aggressivo, e Stephen Miran, al suo debutto proprio a settembre). Le pressioni sottostanti sui prezzi sembrano inoltre ancora forti. Gli aumenti dei salari orari sono ancora superiori alla media di lungo periodo (pari al 3.2%) e a quella precedente la crisi del Covid e la successiva fase di iperinflazione (2,5%). Il dashboard della Fed di Atlanta sulle pressioni inflattive ha cancellato i recenti timidi progressi e segnala che tutti i dati disponibili sono almeno 0,50 punti percentuali al di sopra dell’obiettivo, e decisamente più alti della media di lungo periodo.
Fonte: Il Sole 24 Ore