Pier Luigi Loro Piana: «Così proteggiamo il cashmere più prezioso e chi lo produce»
La prima neve è già caduta, in anticipo. A Ulan Bator, capitale della Mongolia, si teme per un altro dzud, un feroce inverno, l’ennesimo e sempre più frequente evento meteorologico estremo che gela il terreno e condanna a morte le capre Hircus dalle quali si ricava il cashmere, l’oro bianco del Paese e della Mongolia interna, regione confinante e parte della Cina. Lo dzud del 2024 ha ucciso quasi il 12% delle capre, causando una perdita del 28% della produzione di cashmere, di cui quasi il 77% va in Italia, di gran lunga il primo Paese importatore, seguito dalla Francia con una percentuale di circa l’8%.
È quasi naturale, dunque, che sia una delle aziende simbolo del tessile italiano ad aver lanciato un nuovo programma di sostegno per gli allevatori della zona: con “Resilient Threads” Loro Piana darà sostegno per cinque anni ai pastori di cinque distretti particolarmente vulnerabili nella provincia di Sukhbaatar, in Mongolia, con progetti dedicati alla loro salute e alla protezione della biodiversità dell’area. «La loro tutela è anche la nostra», nota Pier Luigi Loro Piana, che nel 1986, quasi 40 anni fa, arrivava per la prima volta in Cina per conoscere da vicino questa produzione così preziosa.
Come è cambiata da allora la produzione di cashmere?
«Mio padre (Franco Loro Piana, ndr) iniziò a lavorare con queste fibre nobili già dagli anni 60, una scelta strategica. Nel 1986 ci fu però un momento di crisi, di penuria della fibra, e andai io. Da allora abbiamo stabilito contatti diretti con i produttori, anche grazie alla progressiva apertura del controllo sulla produzione del cashmere da parte del governo di Pechino. Abbiamo fatto capire loro la qualità che volevamo, orientandoli a produrla. Abbiamo aperto anche dei laboratori nel Paese per controllare la qualità della fibra prima di farla arrivare in Italia. Ci siamo profondamente impegnati per difendere la bellezza e la qualità del cashmere, la sua finezza, facendo capire agli allevatori che sarebbe stato loro interesse mantenere l’esclusività, il prestigio della fibra».
Fibra che però oggi è largamente usata anche nel fast fashion…
«Negli ultimi 20, 30 anni l’aumento della domanda ha portato gli allevatori a investire di più sulle quantità, a discapito della qualità di cui parlavo. Nel cashmere anche un solo micron fa una notevole differenza. I prezzi dei prodotti in cashmere del fast fashion restano bassi perché questi grandi gruppi ne comprano grandi quantità e le fanno lavorare in Paesi con manodopera a basso costo, come Vietnam e Laos. Noi abbiamo scelto un’altra strada, sostenendo gli allevatori che puntano sulla qualità, anche con riconoscimenti come il Loro Piana Cashmere Award, progetto lanciato nel 2015 e che da sempre curo con passione (l’edizione 2024 ha peraltro segnato un nuovo record, premiando una fibra dalla finezza di appena 12,8 micron, ndr)».
Come si possono sostenere nei loro territori queste comunità così fragili, che soffrono gravemente le conseguenze del cambiamento climatico?
«Stagioni critiche ce ne sono state anche in passato, ma certo oggi fanno più paura. Bisogna aiutare i pastori a gestire in modo più moderno le greggi, come si fa già da tempo in Australia, per esempio costruendo pensiline di protezione, fornendo loro cibo nei momenti più duri. L’allevamento deve inoltre diventare più remunerativo, per attrarre più giovani, che siano custodi dei territori. L’adozione di nuove tecnologie anche nella gestione dell’energia e delle acque può aiutare molto».
Fonte: Il Sole 24 Ore