
Ponte sullo Stretto, ecco come viene finanziata l’opera
Il Ponte sullo Stretto non è solo una delle opere pubbliche più discusse della storia repubblicana. È anche un terreno di scontro simbolico e finanziario, in cui si intrecciano le esigenze di politica industriale, gli equilibri di bilancio e per qualche mese persino le strategie di sicurezza internazionale. Non stupisce, quindi, che negli ultimi mesi a Palazzo Chigi sia emersa l’ipotesi – poi tramontata – di far rientrare l’investimento nel perimetro delle spese militari da contabilizzare ai fini dell’obiettivo del 5% del Pil richiesto dalla Nato.
L’ipotesi militare
La suggestione nasceva da un passaggio contenuto nei nuovi accordi di cooperazione: l’Alleanza atlantica, nel ridefinire il concetto di “difesa”, ha aperto alla possibilità di includere alcune infrastrutture strategiche, considerate essenziali per la mobilità militare e la sicurezza dei collegamenti in caso di crisi. Di qui la definizione del Ponte “dual use”: un’infrastruttura civile, ma potenzialmente funzionale a garantire la rapidità di spostamenti di mezzi e uomini lungo l’asse Nord-Sud dell’Italia, proiettato verso il Mediterraneo. Prospettiva per altro ventilata anche dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini proprio a margine dell’approvazione dell’opera da parte del Cipess, lo scorso 6 agosto. “Che possa avere un ‘dual use’ anche per motivi di sicurezza è evidente – ha detto il titolare del dicastero di Porta Pia -. Non entro nel campo di lavoro dei colleghi Giorgetti e Crosetto. Saranno loro a decidere cosa rientra in quell’aumento di spese militari”.
Gli effetti sui conti pubblici
Per Palazzo Chigi l’idea poteva rappresentare una doppia leva: da un lato, rafforzare l’immagine di un Paese che rispetta le scadenze internazionali; dall’altro, alleggerire l’impatto contabile del progetto sugli equilibri di finanza pubblica. Se il Ponte fosse stato incluso tra le spese certificate Nato, parte dei miliardi destinati all’opera sarebbero stati “riconosciuti” come contributo italiano alla sicurezza collettiva dal momento che destinare il 5% del Pil alle spese militari si tradurrebbe in un incremento di spesa quantificabile in oltre 70 miliardi di euro. La proposta, tuttavia, ha sollevato più di un dubbio, sia a Bruxelles sia all’interno delle stesse cancellerie alleate. La classificazione di un’infrastruttura civile come spesa militare avrebbe rischiato di creare un precedente, spalancando la porta ad altre rivendicazioni simili.
L’altolà di Washington
Da qui il rapido raffreddamento della pista, che ieri, come se non bastasse, ha anche ricevuto la bocciatura di Washington. In un’intervista rilasciata a Bloomberg dall’ambasciatore Usa alla Nato Matthew Whitaker, è arrivato il no degli Usa: il governo americano non approverebbe qualsiasi forma di “contabilità creativa da parte degli alleati europei” attuata per raggiungere l’obiettivo della spesa militare dell’Alleanza, “mettendo così in guardia l’Italia mentre il governo valuta se conteggiare il ponte sullo Stretto come spesa militare”.
La risposta di Roma
La replica di Roma non si è fatta attendere e ha preso, come era facile immaginare, la forma dei distinguo e delle rassicurazioni sulla tenuta del progetto. Il ministero di Salvini, in una nota, ha sottolineato come il Ponte sullo Stretto sia “già interamente finanziato con risorse statali, non sono previsti fondi destinati alla Difesa” e che “al momento, l’eventuale utilizzo di risorse Nato non è all’ordine del giorno e – soprattutto – non è una necessità irrinunciabile. L’opera non è in discussione”. La copertura, sulla carta, è solida; resta però sottoposta alle revisioni di bilancio annuali e all’andamento della spesa effettiva. L’ipotesi di inserire il Ponte tra le spese Nato, in fondo, nasceva anche da qui: dalla consapevolezza che 13,5 miliardi non sono un capitolo qualunque, e che la loro contabilizzazione pesa sugli indicatori di deficit e debito. Per ora il progetto resta nel perimetro nazionale, finanziato con fondi pubblici e di coesione.
Fonte: Il Sole 24 Ore