
Prada cambia tono. Da Vivienne Westwood un grand tour provocatorio
«La cosa più importante per noi era cercare un cambio di tono: da aggressivo e potente a gentile, calmo, umano» dice Miuccia Prada esprimendo il sentire suo e di Raf Simons, co-direttore creativo, alla fine della sfilata Prada.
L’abbattimento delle sovrastrutture, la reductio ad un unum inseguendo l’impulso invece del raziocinio è l’intento che pervade tutta la prova: impossibile e reso ancor più struggente dal fatto che lo smantellamento di significato e potere, a guardar bene, non si realizza appieno o non si verifica affatto, ma riverbera ovunque con l’energia compressa di un desiderio incompiuto – che lo si voglia o meno, la moda è una messa in scena altamente pensata, soprattutto a quest’altezza dello spettro, dove un procedere laboratoriale e fabbricato insiste senza tregua. Tutto è nudo: il set non esiste proprio, sicché lo stanzone vuoto del Deposito della Fondazione Prada è vestito solo di enormi tappeti lobati di moquette, astrazioni di fiori tra kindergarten e salle de bain. Le note di collezione sono ridotte ad una mitragliata di frasi lapidarie, tra le quali spiccano «illimitate combinazioni di elementi/ semplice spensieratezza / luoghi immaginari». I vestiti, in fine, hanno linee scarne ed essenziali, oppure archetipiche come la tuta di acetato e il soprabito, e tendono sempre decisamente all’infantile, con le camicie che si allungano come grembiulini, i pantaloni che si accorciano come pagliaccetti, e il distinguo tra maschile e femminile illanguidito in posizione prepuberale. Su tutto, cappelli di paglia laccata e in mano zaini da trekking per momenti di immersione nella natura. Il desiderio di andare controcorrente, di evitare le pose competitive è lodevole, ma si traduce ancora una volta in una sorta di algido infantilismo che è in qualche modo contrario all’urgenza iniziale. Sarebbe interessante, nell’idea del cambio di tono, assistere ad un vero scarto di passo, ad una rottura della formula, altrimenti sono parole nel vuoto e reiterazione del noto.
La ribellione punk, vitriolica, disordinata e spontanea, con il simbolico dito medio sempre sollevato in faccia ai benpensanti, è parte dell’ethos di Simon Cracker, il progetto congiunto di Simone Botte e Filippo Biraghi, basato su recupero e bricolage e foriero di una estetica immediatamente riconoscibile, marginale e sfidante. C’è qualcosa di adolescenziale nella ostinazione con cui questi due autori resistono all’idea conformarsi, riunendo in passerella la creme dei reietti milanesi, ma questa collezione ha un rigore più adulto, consapevolmente ed espressamente margieliano, che toglie il colore e affina la forma, e il risultato convince.
Da Magliano, Luca Magliano prende una stagione sabbatica: al posto della sfilata propone un film, mentre la collezione stessa è pensata intorno all’idea della sospensione, e si muove liquida e porosa tra formalità decostruite e ibridazioni con altri mondi – notevoli i completi da running di crepe de chine – confermando ed esaltando il punto di vista autoriale nel focus obbligato sul prodotto.
Andreas Kronthaler, da Vivienne Westwood, torna a a sfilare a Milano e sceglie un caffè sotto i portici di San Babila per mettere in scena una idea di Gran Tour ad alto tasso di provocazione e sartorialità, come da clichè Brit. È totalmente Brit, e di un anacronismo radicale e affascinante nella evocazione convinta di atmosfere di privilegio azzimato, il mondo costruito da Simon Holloway per Dunhill. Lo si apprezza o lo si trova fuori dal tempo, tertitium non datur, ma non si può non commendare l’esecuzione impeccabile, senza la minima sbavatura.
Fonte: Il Sole 24 Ore