Quando anche sognare diventa una colpa

Quando anche sognare diventa una colpa

Ad accomunare i giornalisti che si occupano di sport, definirli giornalisti sportivi sarebbe riduttivo, è l’inevitabile approdo alla narrativa. Tra i tanti ricordiamo Gianni Mura che dopo aver fatto per anni l’inviato al tour de France scrisse un noir ambientato proprio a La Grande Boucle. Analogamente Marco Bellinazzo, da anni firma di calcio mercato, o meglio di “Goal Economy”, giusto per citare un suo precedente libro, si cimenta col genere noir intrecciato con l’inchiesta per fare un romanzo, in forma investigativa, ambientato tra Milano, Napoli, Lugano, Lagos e Parigi.

Dante Millesi

Si tratta de “La colpa è di chi muore” dove Bellinazzo grazie a un suo alias Dante Millesi, il protagonista della storia- un ex ragazzo del Rione Sanità poi diventato un giornalista smagato- che sa come muoversi nei meandri oscuri dello sport. La sua indagine parte dopo che il ritrovamento di un cadavere emerso dal Lago di Lugano e i sogni di tre giovani calciatori africani si incrociano col suo passato, fino a spingerlo a tornare in campo, dove quello di calcio si confonde col campo di indagine.

Attraverso lo sguardo di Millesi il libro restituisce uno spaccato dell’Italia politica e calcistica degli anni Ottanta e Novanta: da una certa deriva dei costumi, del calcio e del ruolo dell’informazione a cui cercare di opporsi con la resilienza della verità dei fatti. E’ un noir in chiave faction, un mix di fiction ossia la voce narrante del protagonista Dante e di fact gli eventi storici narrati presi da un arco temporale di più decenni. Nel protagonista Dante si sente che c’è vita vissuta, non è soltanto un personaggio letterario, fin dai tempi dell’emozione per il suo provino calcistico “Rammenta come fosse ora quelle scarpette strette che gracchiavano sul cemento, lo scirocco che soffiava sotto la maglia, tra i suoi capelli ricci, e poi la morbidezza di quel campo d’erba e il pallone a spicchi bianchi e neri”. Alle prime disillusioni “17 anni. E la vita gli sembrava già finita. 17 anni e aveva già giocato tutti i minuti che aveva da giocare.”

Fino all’unico modo utile per riscattarsi ossia il giornalismo “perché scrivere resta l’unica forma di libertà che conosce. E perché non ha altro che quella professione a cui aggrapparsi per provare ad avere un senso”

Fonte: Il Sole 24 Ore