
Quando siamo (felicemente) sulla corda
Millequattrocento racchette, una distesa fitta come quella dei girasoli che lungo la strada da Torino a Baldissero d’Alba sono curvi all’ingiù, in una bellissima mattina di settembre. È qui, in un cascinale di questo borgo del cuneese, nel Roero, che comincia il viaggio nel tempo del tennis: decine di racchette sono disposte sulle pareti o penzolano dal soffitto o impreziosiscono i pannelli con i volti di giocatori che hanno fatto la storia o, ancora, sono conservate in teche di vetro, al riparo dalla loro fragilità.In questo museo – che per un appassionato dello sport del momento è un luogo nel quale entrare e non uscire più – ce n’è per tutti: per i sapienti “patologici” in grado di far impallidire un maestro di numeri e dati alla Rino Tommasi, e per i più inconsapevoli che non distinguerebbero una Maxima di legno da un esemplare in grafite. Se poi le si guarda ascoltando il racconto di chi c’è dietro tutto questo, il torinese Paolo Bertolino, la tentazione di prenderne una, accarezzarla e vedersi già in campo è concreta. L’ambiente si presta: le volte alte, il silenzio di un tempio, intorno l’aria rarefatta di luoghi calmi e apparentemente immobili. Qui sono custoditi oggetti che Bertolino, incordatore da trent’anni in un negozio vicino allo Sporting club di Torino, e conoscitore come pochi dei segreti del tennis, ha collezionato con pazienza dal settembre 2017, setacciando i mercatini, monitorando i siti, beneficiando delle donazioni di amici (e non solo) che arrivavano con una sorpresa per lui, in qualche caso anche solo da esporre mantenendone la proprietà. Come nel caso di una Puma prodotta da Head su richiesta di Boris Becker, con tanto di firma del campione tedesco, preservata in un cofanetto di radica di noce come il più prezioso degli Stradivari.
Ma il viaggio, si diceva, è nel tempo, e parte da un’era che addirittura anticipa il tennis come lo conosciamo noi, «cioè da quando Lord Wingfield mise in un baule una rete, una racchetta, le palline, il gesso e il libretto con le regole del gioco e lo spedì in tutte le regioni del Commonwealth: correva l’anno 1874», racconta Bertolino. Sulla parete, infatti, il pezzo più antico porta la data del 1820, ed è l’antesignana delle racchette di legno, con una forma scucchiaiata e le corde ancora in ottime condizioni. Di lì comincia una sfilata di fusti e telai, il cui piatto è spesso imprigionato da una pressa (altrimenti il legno con il tempo si curverebbe), come si conservavano allora. Poi all’improvviso… una Dunlop Maxply, proprio quella usata dai più forti, da Laver a Nastase, da Panatta a Lendl, la più prodotta e più venduta nella storia del tennis per cinquant’ anni, dal 1928 al 1978. Un’icona che pareva immortale, eppure anche per quegli ovali – oggi sembrano così piccoli, come diavolo facevano a giocarci? – sono tramontati, sostituiti al volgere degli anni 80 da strumenti realizzati con nuovi materiali. Per la verità già prima René Lacoste aveva prodotto un esemplare in acciaio al cromo molibdeno con l’incordatura in sospensione (cioè senza i fori per l’inserimento delle corde, che avrebbero indebolito la struttura): rendeva la racchetta più potente e stabile, ma presto viene soppiantato da modelli più leggeri. Una rivoluzione che si consuma in pochi anni grazie alla fibra di carbonio, mentre i piatti corde si ingrandiscono (passando dai 65 pollici di quelle di legno ai circa 100 di oggi).
Ma ecco che ci si avvicina, nel percorso espositivo, ai più grandi di sempre. Quante ne ha combinate, Connors, con la Wilson T2000? Il ventaglio è ampio, si va da Borg e la sua Donnay a McEnroe e la Dunlop, da Agassi (anche lui Donnay e poi Head) a Wilander e la Rossignol, fino ai big three che hanno dominato il tennis per vent’anni, Federer con la Wilson, Nadal con la Babolat e Djokovic (l’unico ancora in attività) con la Head Speed Pro. Cosa sarebbero stati, senza le loro racchette? Non c’è sport in cui l’attrezzo per un atleta sia più determinante e al tempo stesso, osserva Bertolino, rappresentativo. Per il rendimento, la sensazione di sicurezza in campo, la valorizzazione dei propri colpi e anche per l’immagine.Nel museo – che ha richiamato visitatori da Roma, Venezia, Latina e persino dall’Inghilterra – ci sono chicche divertenti, attrezzi ritrovati in mercatini in cui chi vendeva era totalmente ignaro di quello che stava proponendo a pochi euro, come la Wilson pro Staff Original St Vincent di Sampras («Quando l’ho vista in un angolo non credevo ai miei occhi», gongola ancora Bertolino ricordando la scena e “l’affare”: sette euro). O come la Pirelli Technort smontabile, prodotta nel 1988 in edizione limitata, in due modelli, e data come accessorio alle auto fuori serie a un milione e mezzo di lire: un’elegante custodia in pelle nera contiene pezzi che si assemblano e formano una racchetta molto elegante. Il punto è, ovviamente, avere la conoscenza e la capacità di riconoscere un pezzo che vale, la sua storia, la sua autenticità. Il che non è da tutti. Ma non è finita qui.
Il museo della racchetta è mobile, anche. Nel senso che è possibile fare degli allestimenti fuori Baldissero d’Alba, selezionando i pezzi più pregiati o funzionali al tipo di appuntamento in cui potrebbero essere esposti. L’anno scorso ci fu una mostra in occasione delle Atp Finals a Torino, all’Archivio di Stato, e con ogni probabilità quest’anno se ne organizzerà un’altra. Nello scorso luglio una selezione di racchette è approdata a Londra, alla Camera di Commercio italiana, in occasione di Wimbledon: si sono privilegiate quelle usate da chi ha vinto più volte il trofeo sull’erba, nel torneo maschile e femminile, presentate su pannelli con tutte le informazioni sui tennisti e quello che in fondo è «il prolungamento del loro braccio». Non mancano eventi organizzati per anniversari, celebrazioni nei circoli, una passione che si propaga e si alimenta sempre di più. Del resto il tennis italiano sta vivendo il suo momento d’oro, lo si aspettava da cinquant’anni, dai tempi del dream team di Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli con le loro racchette di legno, guidati da capitan Pietrangeli alla vittoria in Cile nel ’76.
E dopo la finale degli Us Open (ancora una volta Sinner-Alcaraz)… chissà che il museo della racchetta non vada in trasferta lì, un giorno. Meglio, chissà che non faccia il suo Grande Slam.
Fonte: Il Sole 24 Ore