
Quella volta che Angelica arrivo’ a Parigi
Mamma mia, che presenza, Claudia Cardinale, anche a incontrarla una sola volta, per poche ore; eppure destinata a restare lì, nella memoria, con la luminosità dei suoi occhi, carboni ardenti perennemente accesi. Mi è capitato di conoscerla alcuni anni fa, poco prima del Covid, a Parigi, dove viveva da tempo. Qualche mese innanzi a Milano nella Kasa dei Libri avevamo organizzato una mostra su di lei, come principale interprete dei film italiani di ispirazione letteraria di una lunga stagione del nostro cinema, dai tardi anni Cinquanta fino ai Settanta inoltrati. Non solo Il gattopardo, che dominava su quell’epoca con la sua statura abbagliante, ma tanti, tantissimi film di notorietà assai minore, che costituivano l’ossatura di quella cinematografia, dalla Ragazza di Bube al Giorno della civetta fino alla Storia, uno sceneggiato per la televisione di Comencini: tutte opere in cui aveva messo la sua bellezza aspra, spesso al confine della selvaticità, al servizio dei romanzi più significativi di un periodo ricco e fervido della narrativa italiana.
La mostra era stata notata dall’allora direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, Fabio Gambaro, giornalista culturale preparato e sensibile, che subito aveva proposto di trasferirla nella sua sede prestigiosissima: quell’Hôtel de Gallifet abitato a suo tempo da Tayllerand che ospita tutte le principali mostre dello stato italiano nella Ville Lumière. Detto, fatto: il tempo di smontarla a Milano, riallestirla a Parigi ed eccoci là, in attesa di inaugurarla con lei, la Diva Claudia, che aveva accettato di esserci.
Né Gambaro né io avevamo mai avuto occasione di incontrarla, e nessuno dei due ha mai scordato il momento del suo ingresso, un’oretta prima dell’inaugurazione: una donna normale, di eleganza sobria, che portava i suoi 80 anni con una straordinaria naturalezza, senza il minimo tentativo di inseguire il tempo perduto. Eppure, anche in quella nonchalance, in quel modo semplice, il fascino era totalmente intatto: bastava ricambiare quello sguardo che non aveva perso nulla della intensità dei vent’anni. Insomma, all’Hôtel de Gallifet, come a Donnafugata, era arrivata Angelica. E anche la curiosità era la stessa: con la felicità di girare tra le teche della sala e rivedere i libri e le riviste dei film più famosi. Si era soffermata sul paginone dell’«Espresso» in formato lenzuolo che la ritraeva al Ninfeo di Villa Giulia insieme a Cassola in occasione del Premio Strega, e molto l’aveva divertita Cara Claudia, un volumetto di Longanesi dove Giovanni Grazzini, giovane critico del «Corriere», aveva radunato le più surreali lettere che le spedivano i suoi fans da tutta Italia. E poi, in una pausa, una domanda sottovoce a mia moglie: Come va il trucco? Naturalmente più che bene, come poteva essere altrimenti? Sa, si invecchia, aveva aggiunto. Impossibile negarlo. Però lo sguardo è sempre quello, l’aveva rassicurata mia moglie.
La stessa semplicità l’aveva riservata al pubblico intervenuto per l’incontro inaugurale: una folla compatta che riempiva la maggiore sala del palazzo, dopo essersi prenotata con settimane di anticipo. E anche lì, sul palco, sollecitata dalle nostre domande, non una diva, ma una donna che aveva alle spalle una storia leggendaria, ma la sapeva raccontare con il tono quotidiano di chi parla di quello che ha comperato al supermercato: Alain Delon? Ogni tanto mi telefona. “Ciao Angelica”, mi saluta. “Sono Tancredi”. Luchino Visconti? Sì, è vero: una volta, quando facevo la pendolare tra il set del Gattopardo e quello di Otto e mezzo, mi chiese di far finta di confondermi e chiamare Fellini Luchino. L’aneddoto è stato riportato magistralmente anche da Francesco Piccolo nel suo La bella confusione; ma raccontato da lei, che queste cose le aveva vissute, aveva il sapore del mito. E il pubblico, allora come sessant’anni prima, la applaudiva con lo stesso trasporto. Speriamo solo che non la applaudano al funerale: la sua classe straordinaria merita solo un deferente silenzio.
Fonte: Il Sole 24 Ore