
Riappropriarci della nostra identità: il ritorno di Kae Tempest
Nel suo splendido libro “Connessioni”, Kae Tempest ci invita a sintonizzarci con gli altri, mettendo da parte il nostro io. Ma quelle 150 pagine mostrano, paradossalmente, come il processo creativo si può aiutare a instaurando un legame più profondo con noi stessi e con il mondo, attraverso la consapevolezza della nostra identità. Quindi, conoscerci meglio ed essere meno egoisti. Tempest lo scriveva nel 2020, in mezzo a pandemia e lockdown, forte di due decenni di esperienza in cui la scrittura e le narrazioni erano state declinate nello spoken word, nel rap; sono finite tra i solchi dei vinili e tra le pagine dei libri.
Il suo quinto album
Adesso, quasi quarantenne, pubblica il suo quinto album, un flusso autobiografico fatto di bassi profondi, beat imponenti che si allargano fino al free jazz e una riconnessione con il suo io più giovane, quello che rappava per strada con gli sconosciuti o su di un palco per sfogare l’odio adolescenziale contro tutti e tutto. Da quegli inizi, Tempest ha pubblicato romanzi, opere teatrali, raccolte di poesie, album e nel 2014 la Poetry Book Society gli ha consegnato il prestigioso riconoscimento che viene assegnato solo una volta ogni dieci anni, quello di “poeta della nuova generazione”.
Un processo di autoriconoscimento
Nel periodo in cui usciva “Connessioni”, Tempest dichiarava di essere non binary, cambiando il suo nome da Kate a Kae. Tre anni dopo, in un documentario raccontava le operazioni e la terapia ormonale di affermazione di genere a cui era andato incontro. In un’intervista del 2025 al New Musical Express, l’artista ha spiegato, presentando l’album: «Era importante per la mia comunità, per me stesso […] per alcuni elementi cruciali della mia identità». Ecco perché il suo quinto album s’intitola “Self Titled”. Uno dei primi singoli ad anticiparlo è stato “Know Yourself”, dove a un certo punto Tempest canta «Quando ero giovane ho cercato aiuto nel mio io adulto. È entrato nella mia mente e mi ha detto: conosci te stesso». È stato il produttore Fraser T. Smith ad aver reso il disco così intimo e autobiografico, con una semplice domanda: «Chi altro può raccontare la storia che solo tu puoi raccontare?».
Anatomia di un’identità
“Self Titled” comincia con il flow ipnotico di Tempest e il suo biografismo immerso nel ritornello cinematografico di “I Stand on the Line”, in cui afferma: «Il tempo è un fiume che trasporta e seppellisce». “Statue in the Square” si muove sullo stesso piano, con un riff centrale, un beat intenso e rime disturbanti per la loro schietta sincerità – «Non hanno mai voluto persone come me da queste parti» – e soltanto in “Sunshine on Catford” l’atmosfera si rasserena, con un inciso melodico. In “Bless the Bold Future” l’hip hop è infilzato dalla world music, mentre la clinica “Diagnoses” è una spirale claustrofobica che si muove nello stesso perimetro d’inquietudine dall’asfissiante “Breathe”. Se la marziale “Forever” comincia con uno spaccato dell’apatia social – «Discutendo con gli autobot e scrollando fino alla noia» – il disco si chiude con un’ultima confessione. In “’Til Morning” un vecchio vinile jazz viene suonato sul piatto, prima di ascoltare uno dei versi più commoventi di Tempest, quando ci tende la mano e ci convince che «possiamo trovare quella bambina, possiamo sorvegliare la sua porta». Sarebbe necessario che tutti provassimo a farlo.
Fonte: Il Sole 24 Ore