
Rimpianto gentile di una terra schiacciata dal turbocapitale
Le città di pianura di Francesco Sossai (dal 25 settembre al cinema) è un film spettinato, come lo sono i protagonisti, due balordi cinquantenni che accalappiano uno studente di architettura e lo coinvolgono nei loro vagabondaggi nella pianura veneta. E, forse, è proprio questa spigolatura eccentrica a conferire alla storia una grazia particolare, un’originalità e un’umanità che raramente vediamo sul grande schermo: la poetica del nulla, quando il quotidiano è stato spogliato della sua poesia. Si parte da un Veneto imprecisato, violato dal turbocapitalismo di memoria zanzottiana, che ha trasformato il territorio in un capannonificio, i paesi in luoghi senza storia, il rito della bevuta in una cerimonia dell’oblio. Sossai trasfigura questi elementi in una commedia dell’assurdo, grottesca e malinconica.
I protagonisti: Carlobianchi e Doriano
Il regista bellunese 36enne per raccontare l’epica di un mondo perduto, sorprende due amici, Carlobianchi (Sergio Romano), detto Charliewhite, e Doriano (Pierpaolo Capovilla), nella loro auto nel cuore della notte, sprofondati in un sonno alcolico, impermeabile a qualsiasi clacson di protesta delle macchine a cui bloccano la strada. Accarezzati dalla luce rossa e poi verde del semaforo, potrebbero benissimo essere le vittime di una scena criminale. La macchina da presa nel frattempo si guarda attorno, cogliendo scorci di una bruttezza genericamente omologata.
Tra Berlusconi e Del Vecchio
Allora il pensiero va a quei film che osano un abbrivio caustico: Ti presento Toni Erdmann di Maren Ade, che comincia sui bidoni della spazzatura, o Sieranevada di Cristi Puiu, che ha il suo inizio sulle auto parcheggiate in strada. Quando la coppia si risveglia, decide di bere un ultimo bicchiere, aspettando il ritorno dell’amico Genio (Andrea Pennacchi), il Godot delle loro vite. Genio è una figura misteriosa che appare quando il Cavalier Fadiga (Roberto Citran), titolare di una fabbrica di occhiali, scende dall’elicottero per premiare un operaio che va in pensione. Fadiga sembra una crasi tra Berlusconi e Del Vecchio, è affabile e chirurgico, impara i nomi dei congiunti del dipendente per dimostrare che l’azienda è una grande famiglia.Per i due amici Venezia è l’unica sponda della spasmodica ricerca dell’ultima “ombra” di vino: qui si imbattono nei festeggiamenti di laurea di una ragazza e vi si accodano nella speranza di un brindisi. In questo frangente Carlobianchi e Doriano incontrano Giulio (Filippo Scotti), studente timido e fuori dal suo tempo quanto lo sono i due cinquantenni. Per questo, forse, è naturale per lui amalgamarsi ai due spiantati. La storia è cosa da poco, ma è raccontata attraverso una gentile arguzia e un’ironia segreta. Per il film di Sossai vien voglia di trovare accostamenti improbabili, come western padano con una estetica da fine Novecento, o pensare al regista come un Olmi kaurismakiano.
Il percorso di Francesco Sossai
Sossai è cresciuto sulle Dolomiti bellunesi e della provincia conosce dolcezze e squallore. Ha macerato il suo Veneto in un distacco non ancora concluso, dopo gli studi romani in Letteratura inglese e tedesca e il diploma in regia alla Accademia tedesca del cinema e della televisione di Berlino. Nel 2021 ha realizzato Altri cannibali, in bianco e nero, con le facce che si trovano nei bar, nei negozi e nelle strade dei suoi luoghi, cui la macchina da presa rimane attaccata, cercando una via di fuga che non esiste. In fondo, scappano anche Carlobianchi e Doriano, attraverso due attori che governano meravigliosamente una rotta impossibile, perché senza meta. Entrambi risultano “veri randagi”, anche se appartengono al mondo dello spettacolo, o forse proprio per questo. È uomo di teatro Sergio Romano, mentre Pierpaolo Capovilla, è musicista ed è stato cantante di una formazione controcorrente degli anni 90. Ne Le città di pianura ci sono echi mazzacuratiani (vedi Citran) di quel Veneto indomito che è un regno con i suoi meccanismi e il suo dialetto, anche se quello di Sossai mostra le cicatrici di ciò che è venuto dopo, quando tutto è stato già scartucciato. Sossai guarda la disfatta attraverso gli occhi di una generazione sconfitta, cresciuta con il mito dell’onnipotenza, del miracolo del Nord Est e incappata nella crisi del 2008. Il regista riprende i suoi eroi con amore, quasi li volesse risarcire della brusca caduta dalla giostra. Niente salva Carlobianchi e Doriano, neppure la bellezza che non vedono mai: Venezia è solo l’insegna di una cicchetteria, la laguna una mera striscia che lambisce la banchina su cui cammina l’improbabile coppia allargatasi in trio, che agogna di visitare la Tomba Brion di Carlo Scarpa, da lui stesso disegnata.
La stampa straniera
In concorso a un Certain regard a Cannes, Le città di pianura è stato eletto Film della Critica dal sindacato, definito «Tenero ed esilarante» da «Le Figaro», «Incantevole» da «Variety». Forse la sceneggiatura, scritta dallo stesso Sossai e da Adriano Candiago, a volte soffre di un eccesso di iperbole quanto a battute e a immagini “sporche”, ma chi conosce certa provincia, e soprattutto quella veneta schiacciata dal profitto, sa purtroppo che quello che si vede nel film non è tanto distante dalla realtà. «Le Monde» ha scritto che nel film di Sossai rivivono i personaggi di Cassavetes e, non a caso, quest’ultimo aveva scritto «Il mondo intero sta morendo di tristezza. Siamo noi il nemico». Più che tristezza, nel film di Sossai c’è un rimpianto delicato, fresco e nuovo.
Fonte: Il Sole 24 Ore