Roveda, dove i sogni di Chanel si trasformano in calzature

Tantissimi libri fotografici, illustrati e per bambini. Film, serie tv (una delle quali in onda ora su Sky Arte) e mostre: quella inaugurata al Victoria&Albert Museum di Londra nel 2023 verrà probabilmente prorogata. Al centro di questa miniera di racconti a parole o per immagini c’è Gabrielle Chanel e la maison che fondò nel 1910, non ancora trentenne. È quasi certo che sulla sua figura e la sua storia personale professionale non sia ancora stato detto tutto; qualcosa (o molto) sfuggirà sempre di una vita e di una personalità tanto complessa e fuori dal comune. Tra i punti fermi c’è sicuramente che sin dagli albori della maison (l’insegna del primo negozio, aperto a Parigi il 1° gennaio 1910 era Chanel Modes), Gabrielle Chanel si distinse per la capacità di immaginare un look completo. Il modo di vestire e scegliere accessori che la stilista offriva alle donne corrispondeva a una nuova visione del loro ruolo nella società.

Una vera e propria linea di scarpe fu introdotta negli anni 50, ma le calzature furono sempre al centro delle scelte stilistiche di Gabrielle Chanel: come racconta Emma Baxter-Wright nel breve saggio Chanel (pubblicato in Italia da Il Castello), «ci sono fotografie di Coco agli inizi del 1929 mentre indossa scarpe con le punte nere e un cinturino incrociato sul piede. È improbabile che avesse disegnato queste scarpe particolari, tuttavia produsse poi modelli bicolori (…). Dal punto di vista pratico, Coco era consapevole che su una scarpa interamente chiara ogni segno sarebbe stato visibile e l’invenzione della punta scura avrebbe aiutato a coprire i graffi».

Gabrielle Chanel, crediamo, sarebbe fiera, forse addirittura felice, di entrare in Roveda, l’azienda di Parabiago, alle porte di Milano, controllata al 100% dalla maison francese, che produce buona parte della calzature Chanel. «I modelli bicolori sono ancora al centro dell’universo delle calzature della maison: nel tempo, stagione dopo stagione, sono cambiate leggermente le forme, i cinturini, le proporzioni, gli abbinamenti di colori, l’altezza dei tacchi, ma il bicolore resta parte dello stile Chanel», racconta Nadia Minini, managing director di Roveda. A dare grande impulso alle linee di calzature, spaziando dalle infradito ai doposci, fu Karl Lagerfeld, direttore creativo di Chanel dal 1983 al 2019, anno della sua scomparsa. Virginie Viard, che Lagerfeld definiva «il mio braccio destro e sinistro» e ha raccolto da lui il testimone della direzione creativa, ha proseguito sulla strada tracciata dal maestro, ma, potremmo dire, lo ha superato. Forse aiutata dal fatto di essere donna e di capire ancora meglio di quanto potesse fare Lagerfeld, l’importanza delle scarpe.

«La tecnologia ci aiuta in tanti modi, a partire dalla comunicazione: con Virginie e il suo team c’è un costante ping pong creativo, reso possibile dagli strumenti che tutti abbiamo imparato a usare al meglio negli scorsi anni – prosegue Nadia Minini –. Computer e innovazioni digitali ci aiutano anche a monitorare e ottimizzare l’utilizzo di ogni risorsa, dall’energia alle materie prime: siamo tutti impegnati a ridurre gli sprechi e a rispettare il valore di ogni persona e del nostro territorio». Ciò che di straordinario avviene in Roveda, dove lavorano persone di 22 nazionalità, è che il lavoro manuale e la creatività che viene dalla mente e dal cuore rimangono tanto importanti quanto la tecnologia. «Anzi, forse lo sono anche di più: i computer possono essere replicati e vanno accesi o spenti – aggiunge la managing director della fabbrica –. Le persone no, non sono replicabili né sostituibili: sono tutte uniche e portano in Roveda le loro conoscenze tecniche ma soprattutto il loro universo interiore e la mia priorità è valorizzarle».

In Roveda alcune cose sembrano addirittura troppo belle per essere vere. Ma lo sono e a dimostrarlo sono i sorrisi e il “caos calmo” che vi regna: la genesi di ogni modello parte da uno schizzo su carta, viene trasferito su un computer, poi nascono le forme e le scarpe vengono “vestite” e nessun passaggio sarebbe possibile togliendo una delle due componenti, la macchina e le mani umane. Pennellature, applicazione artigianale di paillettes, perline, piume, inserti di pelli diverse. «Credo da sempre nell’ascolto e in quello che il gergo del marketing definisce approccio “bottom up” – conclude Nadia Minini –. A noi manager spettano responsabilità e decisioni finali, ma le idee per migliorare i processi e facilitare la vita lavorativa e quindi la creatività e la serenità all’interno della fabbrica vengono da tutte le persone che ci lavorano. Per questo organizziamo incontri fuori e dentro l’azienda, percorsi di formazione personale che in alcuni casi esulano dalle tecniche calzaturiere e stimoliamo un passaggio di conoscenze tra generazioni. Qui tutti dobbiamo essere maestri e allievi allo stesso tempo e imparare continuamente gli uni dagli altri».

Fonte: Il Sole 24 Ore