Se l’inclusione in azienda rischia di escludere ancor di più

Nei percorsi di coaching si ha la fortuna di potersi confrontare in modalità “confessione”, perché il manager ti racconta il suo punto di vista sul lavoro senza timori o remore particolari. Sempre più spesso mi capita di ascoltare questo tipo di lamentela: “La regola più importante per muoversi bene in azienda è non dire mai la verità.” Solitamente accolgo con una risata quella che mi sembra una battuta ma puntualmente arriva la precisazione: “Guarda che non scherzo. Qui dentro se vuoi essere tranquillo o se vuoi fare la carriera devi imparare in molti casi a non dire la verità o quantomeno a non dire ciò che pensi.”

Siamo portati ad associare questo tipo di scenario alla politica, luogo degli infingimenti per antonomasia (da cui l’espressione “politicamente corretto”), ma il mondo delle aziende non è da meno. Del resto, se ci riflettiamo, la limitazione alla nostra libertà di espressione è connaturata a qualsiasi organizzazione umana. Non tutto si può dire e non sempre si può parlare chiaro per gli stessi motivi per cui spesso decidiamo di tacere anche in casa, in famiglia: non urtare la suscettibilità del prossimo quando non ha gli strumenti per capire, o potrebbe equivocare, o offendersi, o gestire male questa informazione o avere una reazione non funzionale alla risoluzione dei problemi e al raggiungimento degli obiettivi comuni.

Questa attenzione è amplificata nel mondo del lavoro dal fatto che siamo immersi da un lato nell’universo dei social e dell’aggressività digitale e dall’altro in una cultura sensibilissima ai temi dell’inclusione e della non discriminazione. Questi elementi stanno creando dei contesti aziendali caratterizzati da un’enorme quantità di “indicibile” o di “infattibile”: non posso escludere una persona da un progetto perché rischio che qualcuno pensi che lo faccia perché ho un pregiudizio nei confronti di quella persona; non posso cambiare le condizioni contrattuali di un cliente perché il cliente potrebbe sentirsi discriminato per un motivo x e danneggiarmi così la reputazione; non posso scrivere che la performance di un collaboratore è stata insoddisfacente perché lui potrebbe sottolineare che questa valutazione è viziata da un pregiudizio relativo al fatto che lui…L’elenco di queste situazioni potenziali è sterminato.

Si potrebbe dire “che male c’è?” Basta attenersi a regole, procedure, policy, basta eseguire il lavoro per cui si è pagati e stare lontano dai temi “sensibili”. In teoria funziona ma in pratica è molto complesso. È difficile per un manager non venire a contatto con temi “sensibili”. Come si può esprimere un’opinione su un candidato senza dire qualcosa che potrebbe essere equivocato? Come si può gestire un collaboratore senza sfiorare aspetti della sua vita personale che inesorabilmente finiscono per interferire con il lavoro? Come si può lavorare senza affrontare mai un dilemma etico che ci obbliga a prendere decisioni delicate che dipendono dai nostri valori e/o dai valori degli altri?

In definitiva lavorare senza mai entrare nell’ambito del “tema sensibile”, del politicamente corretto o scorretto è praticamente impossibile.

Fonte: Il Sole 24 Ore