
Sinner, Wimbledon e quel tappo di champagne
Forse lo dovevamo capire da quel tappo di champagne caduto dalla sua parte. La scena è questa: secondo set, 2-1 per Sinner che si accinge a battere… quando il rumore inconfondibile di un tappo che salta, nel silenzio del centrale, e piomba in campo, lascia tutti di stucco. Jannik lo raccoglie e lo dà al raccattapalle ma forse, quel tappo, era il segnale del successo che sarebbe stato, del brindisi che lo attendeva di lì a tre ore, dopo quel triplo 6-4 che lo consacrava campione di Wimbledon. Perché Sinner ha giocato una gran partita, addomesticando l’esuberanza di Alcaraz, costringendolo all’errore, non consentendogli il comando negli scambi grazie al servizio efficace. Il tutto accompagnato da una grinta e una voglia di vincere che gli ha fatto urlare “Go!” più di una volta, o mettersi le mani ai fianchi, incredulo per un errore non da lui, o ancora chiamare il pubblico, dopo una difesa delle sue seguita da un passante stretto di rovescio incrociato (sul 5-4 e servizio nel secondo set).
Forse dovevamo capire che questa era la “«vittoria nello Slam più speciale, dopo tre mesi fermi e due finali perse”, come ha detto il coach Simone Vagnozzi confessando di aver pianto – cosa che non era mai successa – nel box con Darren Cahill, Alex Vittur, mamma Siglinde protetta da un paio di occhialoni da sole, papà Hanspeter e Mark, il fratello sottratto alla Formula 1.
Lo ha confermato anche Jannik, «ogni Slam è speciale, il mio primo è stato in Australia… Questo lo è per la sua storia, è il torneo più prestigioso e lo si vede da tante cose. Ma lo è anche per quello che abbiamo passato: gli scorsi tre o quattro mesi non sono stati facili e adesso avere questa coppa lo rende molto molto speciale». E allora brindiamo con il numero 1 del mondo, sapendo che lo attenderanno tante altre sfide con Carlos («sono orgoglioso di essere arrivato in finale» con un rivale che «mi spinge a dare il massimo, il 100% a ogni allenamento», ha detto lo spagnolo).
Sinner sta scrivendo la storia dello sport italiano, anche se si schermisce dietro i suoi 23 anni dicendo che non è il tempo di parlare di traguardi “storici”: lui lavora in primis per la propria crescita. «Questo non vuol dire non pensare all’Italia», precisa, «anzi, mi sento fortunato ad essere italiano e son contento di far parte di questa storia, ma adesso dobbiamo andare avanti». Cin cin e pragmatismo da campione, aspettando il rumore del prossimo tappo.
Fonte: Il Sole 24 Ore