Stalking, la “sbandata” non giustifica il corteggiamento insistente

Stalking, la “sbandata” non giustifica il corteggiamento insistente

Il corteggiamento troppo pressante e sgradito all’oggetto del desiderio è stalking. La Cassazione ha così confermato le misure cautelari a carico del ricorrente con l’accusa di stalking, per aver rivolto le sue attenzioni con insistenza alla direttrice del carcere nel quale era ristretto. Senza successo, la difesa si gioca la carta della “sbandata” sull’onda della quale l’uomo aveva agito, non per condizionare la vita della dirigente carceraria, ma perché non era razionalmente in grado di trattenersi. Ma i giudici nell’ordinanza impugnata non avevano colto la differenza tra corteggiamento e stalking.

Il rischio di escalation

Di avviso diverso la Suprema corte che ha respinto il ricorso contro la custodia in carcere, mettendo l’accento sull’obiettivo dell’introduzione del reato di stalking (articolo 612-bis del Codice penale) che era quello di colmare un vuoto di tutela considerato inaccettabile rispetto a condotte che, anche se non violente, turbano la vittima. L’introduzione del reato è una protezione anticipata per punire comportamenti che, anche se all’inizio sembrano lievi, spesso degenerano nelle percosse, nella violenza privata, nelle lesioni personali o nella violenza sessuale, quando non sono alla base dei femminicidi.

«Attraverso la fattispecie in esame si è inteso anticipare la tutela della libertà personale e dell’incolumità fisica e psichica, attraverso l’incriminazione dì condotte che, precedentemente, parevano sostanzialmente inoffensive – si legge nella sentenza – e, dunque, non sussumibili in alcuna fattispecie penalmente rilevante o integranti eventualmente fattispecie minori, quali la minaccia o la molestia alle persone». Per questo il delitto di atti persecutori è ipotizzabile anche nel caso in cui il semplice corteggiamento si traduce in approcci e avances anche non minatori, che, però, per la loro frequenza e durata nel tempo, inducono il destinatario delle “attenzioni” sgradite, a cambiare abitudini di vita e producono uno stato di ansia o di paura. I giudici di legittimità ricordano la sentenza della Suprema corte 32813/2022 relativa alla condanna di un’imputato che si era limitato a inviare «messaggi contenenti frasi d’amore, e-mail contenenti disegni o frasi di canzoni» e a effettuare «chiamate non gradite».

Il peso del luogo e del ruolo della dirigente

Nel caso esaminato per la Cassazione i giudici del riesame «in modo congruo e logico hanno evidenziato che la condotta dell’indagato – scrive la Suprema corte – posta in essere, peraltro, in epoca prossima alla scarcerazione, ha ingenerato nella persona offesa un grave stato di ansia e di paura, tanto più che la stessa condotta è stata reiterata nonostante i plurimi tentativi compiuti dagli operatori del carcere di farlo desistere dai propri intenti».

Fonte: Il Sole 24 Ore