Suicidio assistito, i consigli non sono istigazione

I consigli e il supporto psicologico dato ad un malato che ha già scelto di ricorrere al suicidio assistito, non bastano per il reato di istigazione al suicidio. La Cassazione ( sentenza 17945) ha depositato le motivazioni con le quali ha annullato con rinvio la condanna, a tre anni e quattro mesi, inflitta a Emilio Coveri, presidente di Exit Italia, dalla Corte d’Assiste d’Appello a giugno 2023. La vicenda riguarda la morte, avvenuta in Svizzera nel 2019, della 47enne Alessandra Giordano. Un’insegnante affetta da una nevralgia cronica rara, la sindrome di Eagle, molto dolorosa che l’aveva portata alla depressione e che le provocava gravi sofferenze. La Corte d’assise d’appello aveva disposto per Coveri anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni e il risarcimento danni per le parti civili costituitesi in giudizio, cinque familiari della donna. Secondo la tesi della pubblica accusa, accolta dai giudici di appello, il presidente di Exit Italia avrebbe fornito “un contributo causale idoneo a rafforzare il proposito al suicidio”. Una conclusione raggiunta valorizzando i contenuti delle conversazioni tra la Giordano e Coveri pubblicati dallo stesso imputato nel sito dell’associazione.

I numerosi conttati telefonici

Telefonate nel corso delle quali la Giordano informava il presidente di Exit Italia, sull’avanzamento della proceduta avviata con la clinica Dignitas e lo ringraziava per il supporto e i consigli ricevuti, nel corso di numerosi contatti che risultavano dai tabulati. Per i giudici territoriali bastava a dimostrare che l’imputato aveva influenzato la donna e ne aveva rafforzato la volontà. C’era dunque la condotta tipica del reato di istigazione al suicidio previsto dall’articolo 580 del Codice penale. Una lettura che, ad avviso della Suprema corte, rischia “di dilatare oltremodo il perimetro oggettivo della fattispecie fino a ricomprendere qualsiasi condotta umana che abbia comunque suscitato o rafforzato l’altrui volontà suicidiaria, comunque liberamente formatasi”.

Le opinioni personali favorevoli alla morte assistita

Per la Cassazione l’imputato, al vertice di un’associazione impegnata a promuovere una “cultura di dignità della morte”, aveva espresso le sue opinioni personali, favorevoli ad una morte assistita, preferibile ad una vita di sofferenza. Troppo poco per sostenere che il suo fine fosse quello di indurre la donna a decidere di morire, coartando la sua volontà con una modalità considerata “subdola”. La Cassazione conclude dunque che “è evidente come i giudici di merito abbiano cercato surrettiziamente di configurare in capo al Coveri una sorte di posizione di garanzia nei confronti di coloro che si rivolgono all’associazione da lui presieduta, in ragione della quale non gli sarebbe lecito manifestare le proprie opinioni generali sul fine vita, dovendosi invece fare carico della plausibile situazione di fragilità psicologica dei propri interlocutori, se non addirittura dissuaderli dai loro propositi”. Gli ermellini prendono le distanze dall’automatismo soggetto fragile e dunque influenzabile, a fronte della prova di una scelta, da parte della Giordano, già fatta tanto da mettersi in contatto con Exit Italia, perché la indirizzasse ad una struttura idonea per assisterla nella sua decisione di porre fine alla vita.

Fonte: Il Sole 24 Ore