Tortora, Gulotta, Zuncheddu e gli altri: ecco chi ha ottenuto l’indennizzo per l’errore giudiziario

Tortora, Gulotta, Zuncheddu e gli altri: ecco chi ha ottenuto l’indennizzo per l’errore giudiziario

Angelo Massaro, 21 anni dietro le sbarre per colpa di una consonante

Angelo Massaro è stato in carcere 21 anni per colpa di una consonante. Una parola dialettale mal interpretata gli costa una condanna a 30 anni. Arrestato il 15 maggio 1996 per un reato mai commesso, e uscito dal carcere, dopo la revisione del processo, dichiarato innocente, solo nel 2017, 21 anni dopo. Al momento dell’arresto è in casa con la moglie e i figli, uno di due anni e mezzo e l’altro di 45 giorni di vita. L’accusa è di aver ucciso e fatto sparire un suo amico, scomparso qualche giorno prima. La chiave dell’accusa è una telefonata alla moglie una mattina in cui, trainando un bobcat per un lavoro in edilizia, dice alla moglie che sta trasportando un “muers”, un peso morto, intendendo quello strumento. Massaro finisce quindi in carcere a causa di un’intercettazione trascritta in modo errato, perché gli inquirenti capiscono dall’intercettazione: “muert”, morto. Condannato nel 1997 a 30 anni di reclusione per l’omicidio, viene assolto venti anni dopo. L’odissea umana di Massaro è raccontata in un docu-film, “Peso Morto”, realizzato dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, fondatori di errorigiudiziari.com e dal regista Francesco Del Grosso.

Maurizio Bova, quasi 20 anni in carcere per l’omicidio di un boss

Maurizio Bova è stato riconosciuto innocente dopo essere stato condannato all’ergastolo e aver scontato quasi 20 anni di carcere: esattamente 19 anni, sette mesi e 20 giorni dietro le sbarre. A portarlo in carcere, accuse gravissime: omicidio e tentato omicidio. Maurizio Bova, di Somma Vesuviana, fu condannato ingiustamente nel 1997 per l’omicidio del boss Antonio Ferrara e per il tentato omicidio Domenico Ferrara, episodio avvenuto nel 1994. Ha ottenuto un indennizzo di 2 milioni e 149 mila euro, a riparazione dell’errore giudiziario, deciso dalla Corte di Appello di Perugia. Alla fine un collaboratore di giustizia, inizialmente accusato in concorso con Bova, in seguito si autoaccusò dei reati. Un iter giudiziario lunghissimo, passato dalla condanna all’ergastolo della Corte di Assise di Appello di Napoli nel 1997, all’inammissibilità della revisione del processo da parte della Corte di Appello di Roma nel 2011, all’annullamento della decisione della Corte di Appello di Roma da parte della Corte di Cassazione nel 2012. Poi l’assoluzione della Corte di Appello di Perugia nel 2014, l’istanza di indennizzo presentata sempre a Perugia alla fine del 2014 fino alla camera di consiglio dei giudici avvenuta nel maggio 2015 al deposito della decisione.

Daniele Barillà e la Tipo color amaranto

L’unica colpa di Daniele Barillà era quella di guidare una Fiat Tipo amaranto simile a quella di un trafficante di cocaina che i carabinieri stavano pedinando. Le forze dell’ordine, durante un’operazione antidroga, lo scambiano per il vero colpevole. Nonostante le evidenti incongruenze, Barillà, che aveva aperto una ditta che assemblava cavi elettrici per scooter, arrivando ad avere 15 dipendenti, viene condannato a 15 anni di reclusione. La vicenda di Daniele, racchiusa nel libro “L’uomo sbagliato. Il caso Barillà” e nell’omonima fiction della Rai, parte dalla sera del 13 febbraio 1992. Il giovane imprenditore lombardo sale sulla Tipo amaranto per recarsi all’appuntamento con la fidanzata, a Nova Milanese. Questo avviene mentre i carabinieri del Ros di Genova stanno inseguendo un carico di cocaina, nascosto su una Fiat Uno azzurra scortata da una Tipo amaranto. Alle porte di Nova Milanese la Tipo dei trafficanti si allontana. I militari fermano la Uno con 50 chili di cocaina e bloccano a pochi metri di distanza la Tipo di Barillà. Daniele venne condannato a 15 anni di reclusione, accusato di essere un personaggio di spicco della mala milanese. L’imprenditore perde la sua azienda, la fidanzata. Il padre muore di crepacuore. Nel 2000, dopo 7 anni e mezzo di carcere, è stato assolto. Il caso viene riaperto nel 1997, in seguito all’arresto di un tenente colonnello del Ros in Liguria e capo della Dia genovese, dato che la sua squadra aveva eseguito l’arresto di Barillà. Il militare fu accusato di aver utilizzato metodi illegali per avere la fiducia dei “confidenti”, tra cui l’uso di partite di droga scomparse come mezzo di scambio. Barillà viene scarcerato il 12 luglio 1999 e assolto il 17 luglio 2000 per non aver commesso il fatto. Nel 2001 fa presenta una richiesta di indennizzo di 12 miliardi di vecchie lire. Indennizzo che gli fu inizialmente negato, ma nel 2007 fu stabilito un maxi-risarcimento di circa tre milioni di euro. In totale 2.759.743,72 euro, cifra che con interessi e spese legali supera i tre milioni.

Giuseppe Lastella, 11 anni di carcere, salvato da nuove testimonianze

Giuseppe Lastella, barese, ha passato undici anni dietro le sbarre accusato di omicidio. È il 2 aprile 1990 quando dall’ospedale un pregiudicato, prima di morire, accusa il gruppo che lo ha ridotto in fin di vita, in un agguato sulla Salerno-Reggio Calabria, svincolo per Tarsia. Tra questi, rantola, c’era il contitolare di un autosalone che, secondo gli inquirenti, è Giuseppe Lastella. La Corte d’assise di Cosenza decise per l’assoluzione. Poi però la Corte d’assise d’appello di Catanzaro lo condannò a 30 anni di carcere. Il 20 dicembre 2001 i suoi avvocati, grazie a nuovi elementi di prova costituiti da inedite testimonianze, chiesero la revisione del processo alla Corte d’assise d’appello di Catanzaro, che venne respinta. Ennesimo ricorso in Cassazione, dove la richiesta venne accolta con l’istruzione di un nuovo processo a Salerno. E il 16 novembre 2004 la sentenza di assoluzione. Non basta. La Procura generale impugna la sentenza in Cassazione, ma la Suprema Corte rigetta il ricorso e stabilisce una volta per tutte che Lastella è innocente. Soltanto nel 2012, dopo aver ottenuto una prima somma di circa 600mila euro, ha avuto un’integrazione che ha portato l’importo definitivo dell’indennizzo a 1,5 milioni di euro.

Giuseppe Giuliana, il bracciante agricolo innocente

Accusato di un omicidio mai commesso, Giuseppe Giuliana ha trascorso in carcere 5 anni e 29 giorni. A questo vanno aggiunti 2 anni, 5 mesi e 4 giorni trascorsi con l’obbligo di dimora e di divieto di espatrio. Il bracciante agricolo, originario di Canicattì (Agrigento), che si era sempre dichiarato innocente, era stato accusato di aver ucciso un imprenditore a Serradifalco (Caltanissetta). Fu giudicato colpevole in primo grado dalla Corte di Assise di Caltanissetta, il 4 luglio 1997. Poi la sentenza venne confermata anche dalla Corte di Assise di appello di Caltanissetta che lo condannò a 19 anni di reclusione per omicidio, detenzione e porto d’armi da fuoco, rapina aggravata. Stesso verdetto, nel 2000, anche dalla Cassazione. Il 6 dicembre 2014 il processo di revisione si è concluso con una sentenza di assoluzione da parte della Corte d’Assise d’Appello di Catania. Giuseppe Giuliana ha presentato una richiesta di indennizzo per il danno morale ed esistenziale che ha subito nei suoi anni in carcere. E il 15 giugno 2015 la Corte d’Appello di Catania l’accoglie. L’indennizzo ottenuto dallo Stato è stato di 500mila euro.

Fonte: Il Sole 24 Ore