Tra i custodi della più antica memoria della specie umana

Tra i custodi della più antica memoria della specie umana

Tengono solo due o tre frecce avvelenate, oltre ai due bastoncini per accendere il fuoco, nella faretra. Unico loro bagaglio, insieme alle uova di struzzo impiegate come borracce, è fatta con la radice della Vachellia reficiens, detta anche acacia dalla corteccia rossa, arrostita cinque ore sulla brace e poi battuta per farne uscire il midollo. Il morbido laccio della tracolla è di pelle di dik-dik, di cefalofo o di altre piccole antilopi, come i loro vestiti. Le pelli di quelle più grandi, l’orice o l’eland, servono da letti e coperte.

Mentre ci inoltriamo nella boscaglia si fermano e con foga mostrano un arbusto anonimo: paiono solo rami spogli. È un cacciatore anziano a guidarci, e lui non sa l’inglese. Parla la sua bella lingua schioccante – ce n’è una che contempla oltre 80 click – adornandola di molti eloquenti gesti, tanto che a volte non serve quasi la traduzione fatta dal giovane San che aveva acceso il fuoco e mostrato le frecce, e che ora sta dicendo «veleno, veleno!». «Non ha ancora le foglie – spiega – perché è inverno, ma quando spuntano si riempiono di vermi. Questi le divorano tutte e poi si interrano. Passato un po’ di tempo, scaviamo sotto la pianta, raccogliamo i bozzoli delle ninfe in cui si sono trasformati i vermi: è lì, il veleno».

«Hai visto che il mio cuore è allegro e aperto? – dice l’anziano San, nel congedarmi -. Quando torni a casa dillo agli amici, dì loro che noi siamo felici!».

La giornata è finita nello Ju/’Hoansi-San Living Museum di Grashoek, 7 km a nord della lunga strada sterrata C44, tra Grootfontein e Tsumkwe, nel nord est della Namibia. È uno dei sette “musei viventi” creati dalla Living culture foundation Namibia, fondazione tedesco-namibiana, e ora interamente affidati ai San, ai Damara, agli Ovahimba e ad altri popoli locali. Da quando ci sono, le auto piene di turisti che sfrecciano veloci sulla strada bianca impolverando i San e lasciandoli con la curiosità di conoscere quegli insoliti individui, come ci racconta Kxao Khan//an, guida San, ogni tanto si fermano, entrano nel villaggio, e gli avventori scambiano denaro al posto di cultura: si iscrivono a corsi di alcune ore per imparare, o almeno vedere, come costruire archi, accendere fuochi, seguire le tracce degli animali, cacciare, danzare, creare gioielli con frammenti di uova di struzzo e semi, o ascoltare gli anziani raccontare antiche storie . Vicino al villaggio si può piantare la tenda. Anche se vogliono vivere come gli antenati, i San hanno bisogno di denaro, specialmente da quando, con l’indipendenza della Namibia, il governo li ha forzati a diventare sedentari, a mandare i bambini a scuola. La scuola va bene, dice Khan//an, ma non è facile proseguire negli studi: molti abbandonano perché derisi per il loro aspetto, il colore della pelle, la strana lingua e la povertà.

«Sono più felici loro», afferma sicura, sulla strada del ritorno, Nisa, che ha 13 anni, vissuti in Francia. Lo dice anche, dopo un quarto di secolo passato coi San, l’antropologo James Suzman, in Affluence without abundance. What we can learn from the world’s most successful civilisation (Bloomsbury, pagg. 300, £ 10,99). Il benessere senza l’abbondanza: massimo 15 ore alla settimana servono ai San per procacciarsi il cibo, e meno di altre 15 le spendono in attività domestiche che solo a fatica potrebbero definirsi “lavoro”. Non hanno impegni giornalieri, devono darsi da fare solo quando il cibo è finito. Possono dormire, riposare, divertirsi nel resto del tempo. Non sono ostaggio di aspirazioni irraggiungibili: possiedono solo quello che possono trasportare, e nessuno ha più degli altri. È stato l’avvento dell’agricoltura, diecimila anni fa, a produrre quello sbilanciamento che ha costretto le donne a ruoli domestici e subordinati e generato l’accumulo dei capitali all’origine delle disuguaglianze odierne, ipotizza Suzman.

Fonte: Il Sole 24 Ore